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sabato 29 maggio 2021

Le stelle, la luna e le nuvole



Il Signore dell’eternità, aveva creato il giorno e la notte. E la notte era tenebrosa, nessun essere vivente ardiva avventurarsi nel suo buio spaventevole. Una volta un bimbo si svegliò prima dell’alba. Nell’ombra densa cercò sua madre che dormiva con lui nel povero giaciglio della capanna solitaria.
La cercò annaspando con le manine, balbettando un’amorevole invocazione.
Non sentì il corpo tiepido accanto al suo, non udì la risposta della dolce voce. L’ansia e il dolore lo gettarono dal lettuccio. Fece qualche passo nella capanna, riuscì a trovare la porticina, uscì. All’aperto, le tenebre gli parvero più fitte. Avanzò carico di sgomento.

Il Genio dell’aria, che vede la terra anche quando è immersa nelle tenebre, volle aiutare il piccolo innocente. Si recò dal Fuoco:
- Un bimbo cerca la sua mamma. E cammina nel buio. Accendi un lume per la povera creatura, che non si perda.

- Che farebbe un lume solo in tutto quel buio? – meditò il Fuoco.

Diede una lampada a ciascuno dei suoi molti figli.
Poi disse:
- Recatevi a passeggiare per gli spazi.

I ragazzi ubbidirono felicissimi della novità..
Il povero bimbo della terra vide tanti lumicini in cielo: le stelle.
E gli fu possibile scorgere la mamma che, oppressa dal caldo, era andata ad accoccolarsi sotto un albero, in cerca di un po’ di frescura.

 

La notte seguente un cattivo uomo uscì di casa con la malvagia intenzione di recarsi a uccidere un suo nemico. I figli del Fuoco, che oramai provavano un gusto matto a correre per gli spazi, agitavano le loro lanterne con le fiammelline rosse, verdi, gialle. E il perfido uomo, agevolato dalla luce, moveva con crudele soddisfazione verso l’odiatissimo nemico.

Il Genio dell’aria che tutto vede, corse da Mu-Ta, la regina delle nubi:
- Ti prego, avvolgi con le tue coltri brune i figli del Fuoco, nascondi le lampade lucenti che essi portano, fai che, sopra la Terra la notte ridiventi la severissima Signora delle tenebre.

Le nubi corsero gli spazi, avvolsero le stelle. Nel buio improvviso che s’era fatto in cielo, il viandante assassino si turbò, smarrì la strada, finì per cadere in un baratro.

- Nessun delitto è possibile, in grazia mia - andò a proclamare la Regina delle nubi al Genio dell’aria.

E il Genio dell’aria, sentenziò:
- La notte, dunque, ti appartiene.

Anche il Fuoco andò a dire la sua:
- Senza i miei figli che illuminano i cieli, come potrebbero salvarsi le creaturine deboli e innocenti, costrette a camminare nelle ore notturne?

- Giusto, giustissimo – ammise il Genio dell’aria.

Da quel tempo le stelle e le nubi si contendono il cielo della notte.
Qualche volta la moglie del Fuoco esce a sorvegliare i suoi figliuoli con una grossa lampada tonda, la luna. Nell’ombra d’oro o nel buio camminano sempre molti uomini. Qualcuno ha il cuore limpido, altri hanno dentro il veleno dell’odio.
E il Genio dell’aria lascia ormai che le stelle e le nubi si divertano a loro piacere.  Ha deciso di non guardare più la Terra.


Buona giornata a tutti. :-)

sabato 8 maggio 2021

i due viandanti e l'orso - Esopo


 ESOPO, Favole, VI secolo a.C.

Due amici viaggiavano insieme, quand'ecco apparire davanti a loro un grosso orso. Uno di loro salì veloce su un albero e si nascose, mentre l'altro, che stava per essere preso, si gettò al suolo fingendo di essere morto. L'orso gli avvicinò il muso, annusandolo, ed egli tratteneva il respiro, perché, a quanto pare, l'orso non tocca i cadaveri.

Quando l'orso si allontanò, quello sull'albero discese e chiese: "Cosa ti ha detto nell'orecchio quando ti annusava?" E l'altro, piuttosto turbato, rispose: "Mi ha detto di non viaggiare mai più con un compagno che, nel pericolo, non rimane al tuo fianco." La favola insegna che le disgrazie mettono alla prova la bontà degli amici.

Buona giornata a tutti. :-)

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venerdì 30 aprile 2021

Il treno della vita


Qualche tempo fa ho letto un libro, dove la vita veniva paragonata ad un viaggio in treno.
È stata una lettura interessante ed ho fatto tesoro di questa splendida metafora.
La vita è come un viaggio in treno…
Quando nasciamo e saliamo sul treno, incontriamo le prime persone importanti, che pensiamo ci accompagneranno durante tutto il nostro viaggio: i nostri genitori.
Purtroppo la verità è un’altra.
Loro scenderanno prima di noi e ci lasceranno senza il loro amore, il loro affetto, senza la loro amicizia e compagnia.
Ma per fortuna sul treno salgono altre persone che per noi saranno molto importanti.
Sono i nostri fratelli e sorelle, i nostri amici e tutte le persone meravigliose che amiamo.
Qualcuna di queste persone che sale considera il viaggio come una piccola passeggiata.
Altri trovano solo tristezza nel loro viaggio.
Poi ci sono altri ancora sul treno sempre presenti e sempre pronti ad aiutare coloro che ne hanno bisogno.
Qualcuno, quando scende, lascia una nostalgia perenne.
Qualcun altro sale e riscende subito, e lo abbiamo a mala pena notato.
Ci sorprende come alcuni passeggeri, a cui vogliamo più bene, si seggano in un altro vagone e che in questo frangente ci facciano fare il viaggio da soli.
Naturalmente non ci lasciamo frenare da nessuno: ci prendiamo la briga di spingerci alla loro ricerca nel loro vagone.
Purtroppo qualche volta non possiamo accomodarci al loro fianco, perché il posto vicino a loro è già occupato.
Purtroppo, così è il viaggio: pieno di sfide, sogni, fantasie, speranze e addii … ma senza ritorno.
Allora cerchiamo di fare il viaggio nel miglior modo possibile.
Cerchiamo di andare d’accordo con i nostri vicini di viaggio e cerchiamo il meglio in ognuno di loro.
Ricordiamoci, che in ogni fase del tragitto uno dei nostri compagni di viaggio può vacillare e aver bisogno della nostra comprensione.
Anche noi vacilleremo spesso e ci sarà sicuramente qualcuno che ci tenterà di capirci.
Il grande mistero del viaggio è che non sappiamo quando scenderemo definitivamente!
e tantomeno quando i nostri compagni di viaggio lo faranno.
La separazione da tutti gli amici che ho incontrato durante il viaggio sarà dolorosa.
Lasciare i miei cari sarà molto triste.
Ma ho la speranza che prima o poi si arrivi alla stazione centrale ed ho la sensazione che li vedrò arrivare tutti con un bagaglio che quando erano saliti sul treno non avevano ancora
Ciò che mi renderà felice, sarà il pensiero di aver cercato di contribuire ad aumentare e ad arricchire il loro bagaglio.
Cerchiamo di fare un buon viaggio e che alla fine ne sia valsa la pena.
Mettiamocela tutta per lasciare, quando scenderemo, non solo un posto vuoto, che lascia nostalgia, ma soprattutto bei ricordi in coloro che proseguono il viaggio.

anonimo dal web

Buona giornata a tutti. :-)


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sabato 24 aprile 2021

La Leggenda dei Tre Alberi


C’erano una volta tre alberi che crescevano uno accanto all’altro nel bosco. Erano amici e come tutti gli amici anche loro erano molto diversi, nonostante crescessero nello stesso posto e fossero tutti della stessa altezza. Un giorno gli alberi parlavano di ciò che sarebbero voluti diventare da grandi:

“Da grande sarò un baule intagliato, il più bello di tutti, di quelli dove si conservano i tesori e i gioielli”, disse il primo albero, e il secondo continuò: “Da grande sarò un potente veliero, il più forte di tutti e trasporterò il più famoso esploratore del mondo”, e il terzo disse: “Da grande sarò il più alto e bello di tutti gli alberi e agli uomini parlerò di Dio”.

Passarono gli anni, un giorno nella foresta arrivarono i boscaioli per abbattere il primo albero. “Ora il mio desiderio di diventare un baule di tesori si realizzerà”. Ma non fu così. Anziché essere trasformato in un baule di tesori, il primo albero diventò una mangiatoia per animali. Passarono alcuni anni. Poi una notte la vita del primo albero cambiò. Nacque un bambino, con tutta evidenza non era un bambino comune. Gli Angeli cantarono ed i pastori vennero a visitarlo. Indovinate quale mangiatoia usò come culla la Madre del Bambino? Quando capì cosa era successo, il cuore del primo albero si riempì di gioia. “È vero, non sono stato riempito d’oro e di gioielli, ma ho portato il più prezioso tesoro del mondo”.

Anche il secondo albero, quando venne abbattuto, fu molto contento. “Ora il mio desidero di diventare un potente veliero si potrà realizzare”. I boscaioli portarono via il secondo albero ma anziché un agile veliero diventò un semplice peschereccio. Passarono molti anni, in tutto circa trenta, e un giorno anche la vita del secondo albero cambiò. Era fuori in mezzo al mare, quando si scatenò una tempesta terribile. Il vento soffiava le onde erano tanto alte che la barchetta sembrava affondare, ma a quel punto accadde qualcosa di incredibile. Gesù vedendo i suoi Discepoli spaventati si alzò e ordinò al vento e al mare di calmarsi, ed essi obbedirono. Il vento cessò e ci fu grande bonaccia, poi disse loro: “Perché avete paura, non avete ancora fede?” Ma chi è costui che anche il vento ed il mare gli obbediscono? Quando il secondo albero capì ciò che gli era accaduto, anche il suo cuore si riempì di gioia. “I miei desideri si sono realizzati, non ho trasportato un grande esploratore, ma ho trasportato il Creatore del cielo e della terra”.

Non molto tempo dopo anche la vita del terzo albero subì un cambiamento. Non fu molto contento quando i boscaioli lo abbatterono. “Ora non potrò più essere l’albero più alto della foresta e non potrò parlare agli uomini di Dio”. I boscaioli lo portarono via. Con sua grande costernazione però non fu lavorato per farne qualcosa di bello. Di lui ne fu fatta una grezza croce di legno. Là in cima ad una collina fu inchiodato sopra le sue travi un uomo condannato a morte. Sarebbe dovuto essere il giorno più brutto della vita dell’albero, ma chi era l’uomo inchiodato sulla croce? Era Gesù Cristo Figlio di Dio. E quando il terzo albero capì cosa era successo, il suo cuore pianse contento. “Eccomi” disse “Non diventerò l’albero più alto del bosco, ma sarò la Croce, e quando gli uomini mi guarderanno, penseranno a Dio che, attraverso suo figlio Gesù, salva tutto il mondo”. E questo era molto meglio che essere soltanto il più grande albero del mondo.

Buona giornata a tutti. :-)


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martedì 30 marzo 2021

Un asino nella notte - suor Ch. Augusta Lainati, clarissa


Un asino nella notte

L’asino camminava nella notte. Camminava e pensava a quella madre che portava sul dorso, tutta ravvolta nel mantello oscurato dall’ombra.
Un passo dietro l’altro, attento a che il suo andare fosse quieto e sempre uguale, per non destare il bimbo che dormiva. Un passo dietro l’altro, misurati dal battito del cuore: finché i battiti divennero più frequenti dei passi e il cuore, in petto, parve scoppiare.
Allora smise di fissare il cielo e la notte che si stendeva davanti a perdita d’occhio e, piegato il capo, cominciò a guardare a terra, sul sentiero appena segnato, ora per evitare un sasso troppo acuto, ora per posare lo zoccolo sui ciuffi d’erba bianchi di brina.
Cominciava a sentire il peso del carico; le gambe si stendevano nel passo ogni volta più faticosamente, finché l’andatura divenne secca, legnosa, e ad ogni piegare di ginocchi gli sembrava di udire come un ramo secco spezzarsi. Si ricordò della catasta di legna ammucchiata nella sua stalla tiepida, dell’alone di luce fumosa intorno alla lucerna pendente sopra la greppia, e l’immagine divenne tanto seducente che gli parve di sentire su per le narici l’odore penetrante di una manciata di fieno fresco.
Si volse, allora, con occhi imploranti verso l’uomo che gli camminava a fianco. Era giovane, ma la strada lo aveva curvato sopra il bastone, e il vento freddo della notte invernale gli incollava il mantello contro un fianco.
Il ciuco non riuscì a vedergli bene il volto, ma vide che l’oscurità, interrotta solo dalla luce delle stelle, incavava le occhiaie dell’uomo e riduceva ad una oscura macchia ansante il collo vigoroso, e il petto, che ad ogni passo si alzava e si abbassava.
“Sta peggio di me” pensò l’asino: e riprese a camminare. Camminò per un’ora con la testa bassa, con l’odore di fieno che sempre gli solleticava le narici con l’aumentare della stanchezza: finché il desiderio di cibo scomparve e rimase solo un’acuta brama di paglia tiepida su cui stendersi, della paglia che aveva lasciato a Betlemme quando l’avevano destato nella notte appena cominciata. Fu proprio il tepore associato al ricordo di Betlemme, di Betlemme con la sua piccola tiepida stalla, che lo aiutò a proseguire ancora sul terreno accidentato. Via, via e via.
Dopo qualche ora, ricominciò a sentire che non ne poteva più.
Nessun ricordo veniva ad addolcire la sua andatura e ad ogni passo migliaia di fitte gli trapassavano il corpo.
Decise di fermarsi, di sdraiarsi sul terreno ad aspettare il sonno, la morte.
Si guardò attorno, voltò il capo per trovare un riparo dal vento; e fu come se una mano gelida gli si fosse posata sul cuore: la donna sulla sua groppa era tutta un tremito per il freddo e il suo alito gelava nell’aria appena uscito dalle labbra dischiuse.
“Sta peggio di me” pensò ancora il somaro.
Continuò a camminare e un’altra ora passò, un’ora di stanchezza infinita, di contrasti col vento, di paura per quella dama, per quel Bambino, per quella figura scolpita dall’ombra che gli camminava al fianco e sulla cui andatura cercava faticosamente di regolare il passo.
Non ne poteva veramente più. Il terreno sassoso aveva a poco a poco ceduto ad un molle strato di sabbia; prima poche manciate insinuatesi tra le zolle indurite dal freddo e i sassi denudati dal vento, poi un tappeto soffice su cui era stato agevole camminare, e infine uno strato alto, dove gli zoccoli sprofondavano e si appesantivano e non venivano più fuori.
Ansimava; il sudore scendeva copioso giù per la fronte, nonostante il freddo, e si raccoglieva in due rivoletti lungo naso. Non sapeva che cosa fare, se lasciarsi cadere sfinito lì, sotto la volta del cielo, o se continuare impazzito di dolore e di freddo, senza avere più nozione, né di tempo, né di strada, finché la morte lo cogliesse e gli irrigidisse il passo nell’ultimo sforzo.
Fra le due prospettive, la prima gli sembrava infinitamente più desiderabile: doveva essere pur dolce lasciarsi cadere sulla sabbia ad aspettare la morte come liberazione dal male, riempire l’attesa con il ricordo di pigre giornate di sole, di terra smossa e odorosa, di mosche fastidiose che era divertente scacchiare con subito fremere delle membra. Anche il ricordo della pesante macina gli avrebbe fatto piacere, purché potesse distendersi ad aspettare la morte.
Aveva deciso. Ma, prima di lasciarsi cadere raccolse le forze per un ultimo raglio, l’addio alla vita. Al deserto, alla volta celeste: pensò che tra poco le stelle sarebbero impallidite nei suoi occhi spenti. Usò quanta forza gli rimaneva, e il raglio si alzò acuto, più sonoro nel silenzio del deserto.
E fu allora, mentre le ginocchia già si piegavano, mentre già assaporava la dolcezza di quella sabbia, pur fredda, che udì il pianto cheto del Bambino, del Bambino che non aveva pianto per il disagio dell’andare, non per il vento che si insinuava fin sotto le fasce, ma piangeva per il raglio dell’asino che non voleva più soffrire.
Fu così, per quel pianto infantile, che il ciuco scelse di continuare.
E andò, appesantito dalla sabbia, sferzato dal vento, sotto la volta concava e scura del cielo, finché le stelle impallidirono: e credette di sognare quando, nella luce ancora incerta, si profilò la sagoma di un villaggio straniero.
Gli diedero un giaciglio di paglia fresca, colmarono la greppia di fieno odoroso e l’acqua che versarono nell’abbeveratoio della stalla rispecchiava, insieme alle travi rozze del soffitto, una lampada lucente.
Ma non riuscì né a bere né a mangiare, per lungo tempo; rimase disteso sulla paglia senza neppure goderne il contatto, né vide l’immagine increspata della lampada nell’acqua dell’abbeveratoio. Ma quando, risvegliatosi dal torpore di morte avvertì il profumo penetrante del fascio di fieno nella mangiatoia e cercò di alzarsi, facendo forza sulle zampe anteriori, vide – e lo vide lui solo – l’Angelo che aveva invitato alla fuga Giuseppe.
Aspettava il suo risveglio, e lo aspettava lieto, come a ringraziarlo per quanto aveva fatto.
Il ciuco si alzò del tutto, gli si avvicinò tanto da essere nella sua stessa luce, coronato dalla sua stessa aureola: allora soltanto, quando vide che l’Angelo non si ritraeva, che non rifiutava di fasciarlo del suo stesso fulgore, raccolse tutto il coraggio, tutta la forza che ancora gli restava nelle membra e, chinata la testa, chinatala fino a terra, ebbe l’ardire di chiedere una ricompensa.
Chiese, piano: “Fa’ che sia io a riportarli indietro.”

suor Ch. Augusta Lainati, clarissa


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giovedì 11 marzo 2021

Alla Fine dei Tempi autore don Bruno Ferrero


Alla fine dei tempi, miliardi di persone furono portate su di una grande pianura davanti al trono di Dio. Molti indietreggiarono davanti a quel bagliore. Ma alcuni in prima fila parlarono in modo concitato. Non con timore reverenziale, ma con fare provocatorio.

“Può Dio giudicarci? Ma cosa ne sa lui della sofferenza?”, sbottò una giovane donna. Si tirò su una manica per mostrare il numero tatuato di un campo di concentramento nazista. “Abbiamo subìto il terrore, le bastonature, la tortura e la morte!”.

In un altro gruppo un giovane nero fece vedere il collo. “E che mi dici di questo?”, domandò mostrando i segni di una fune. “Linciato. Per nessun altro crimine se non per quello di essere un nero”.

In un altro schieramento c’era una studentessa in stato di gravidanza con gli occhi consumati. “Perché dovrei soffrire?”, mormorò. “Non fu colpa mia”.

Più in là  nella pianura c’erano centinaia di questi gruppi. Ciascuno di essi aveva dei rimproveri da fare a Dio per il male e la sofferenza che Egli aveva permesso in questo mondo.

Come era fortunato Dio a vivere in un luogo dove tutto era dolcezza e splendore, dove non c’era pianto né dolore, fame o odio. Che ne sapeva Dio di tutto ciò che l’uomo aveva dovuto sopportare in questo mondo? Dio conduce una vita molto comoda, dicevano.

Ciascun gruppo mandò avanti il proprio rappresentante, scelto per aver sofferto in misura maggiore. Un ebreo, un nero, una vittima di Hiroshima, un artritico orribilmente deformato, un bimbo cerebroleso. Si radunarono al centro della pianura per consultarsi tra loro. Alla fine erano pronti a presentare il loro caso. Era una mossa intelligente.

Prima di poter essere in grado di giudicarli, Dio avrebbe dovuto sopportare tutto quello che essi avevano sopportato. Dio doveva essere condannato a vivere sulla terra.

“Fatelo nascere ebreo. Fate che la legittimità  della sua nascita venga posta in dubbio. Dategli un lavoro tanto difficile che, quando lo intraprenderà , persino la sua famiglia pensi che debba essere impazzito. Fate che venga tradito dai suoi amici più intimi. Fate che debba affrontare accuse, che venga giudicato da una giuria fasulla e che venga condannato da un giudice codardo. Fate che sia torturato. Infine, fategli capire che cosa significa sentirsi terribilmente soli. Poi fatelo morire. Fatelo morire in un modo che non possa esserci dubbio sulla sua morte. Fate che ci siano dei testimoni a verifica di ciò”.

Mentre ogni singolo rappresentante annunciava la sua parte di discorso, mormorii di approvazione si levavano dalla moltitudine delle persone riunite.

Quando l’ultimo ebbe finito ci fu un lungo silenzio. Nessuno osò dire una sola parola. Perché improvvisamente tutti si resero conto che Dio aveva già  rispettato tutte le condizioni.

“E il Verbo si fece carne” (Giovanni 1,14).

- don Bruno Ferrero - 
dal : "Libro Alla Fine dei Tempi",  editore Elledici

venerdì 19 febbraio 2021

La volpe e l'uva - Fedro


Una volpe affamata arrivò  davanti a una pergola carica di uva.
 Fece molti tentativi con balzi e rincorse ma l’uva era troppo in alto e non riuscì a mangiarne: 
“Non è matura”, borbottò, “Acerba non mi va”. 
E se ne andò.

- Fedro - 

Buona giornata a tutti. :-)


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lunedì 25 gennaio 2021

I tre giorni della merla


Dovete sapere che i merli, un tempo, avevano delle bellissime piume bianche e soffici. 

Durante il gelido inverno, raccoglievano nei loro nidi le provviste per sopravvivere al gelo, in modo da potersi rintanare al calduccio per tutto il mese di gennaio. 

Sarebbero usciti solo quando il sole fosse stato un poco più caldo e i primi ciuffi d’erba avessero fatto capolino tra i cumuli di neve.
Così, aspettarono fino al 28 di gennaio, poi uscirono. Le merle cominciarono a festeggiare, sbeffeggiando l’Inverno: anche quell’anno ce l’avevano fatta; il gelo, ai merli, non faceva più paura! 

Tutta questa allegria, però, fece infuriare l’inverno, che decise di dare una lezione a quegli uccelli troppo canterini: sulla terra calò un vento gelido, che ghiacciò la terra e i germogli insieme ad essa. Perfino i nidi dei merli furono spazzati via dal vento e dalla tormenta.
I merli, per sopravvivere al freddo, furono costretti a rintanarsi nei camini delle case. 

Lì, il calduccio li riscaldò e permise loro di resistere a quelle giornate. 

Solo a febbraio la tormenta si placò e i merli poterono riprendere il volo. 

La fuliggine dei camini, però, aveva annerito per sempre le loro piume bianche: fu così che i merli divennero neri, come li possiamo vedere oggi.



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sabato 11 gennaio 2020

Pollicina - Hans Christian Andersen

C’era una volta una donna che si struggeva di avere una bambina, magari piccina così; ma non sapeva come fare a trovarsela. Andò dunque da una vecchia strega, e le disse: "Desidererei tanto di avere una bambina piccina: sapete dirmi dove potrei trovarne una?"

"Oh, è presto fatto!" - disse la strega: "Ecco qui un chicco d’orzo: non è della specie solita, che cresce nei poderi dei contadini e si dà a mangiare ai pulcini. Piantatelo in un vaso da fiori, e vedrete."

"Grazie!" - disse la donna; e diede alla strega dodici soldi - prezzo fisso. Andò a casa, piantò il grano d’orzo: e lì per lì spuntò un bel fiore, che somigliava al tulipano, con i petali però chiusi strettamente, come se fosse ancora in boccio.

"Che bel fiore!" - disse la donna: e baciò i petali rossi e gialli. Per l’appunto mentre lo baciava, il fiore fece Ppa! e si aperse. Era un vero tulipano, ora si conosceva benissimo; ma nel mezzo del fiore, seduta sui verdi stami vellutati, c’era una bambina, delicata e graziosina, ch’era un piacere vederla. Era alta forse appena mezzo pollice, e per ciò le misero nome Pollicina.

Un bel guscio di noce ben lucidato le serviva di culla: le materasse erano petali di viole del pensiero, morbidi come il velluto, una foglia di rosa formava la coperta. Là dentro dormiva la notte; ma il giorno giocava sopra la tavola, dove la donna aveva posto un piatto, con una ghirlandetta di fiori tutt’all’ingiro dell’orlo; lo stelo dei fiori era immerso nell’acqua, e sull’acqua galleggiava un grande petalo di tulipano. In questo, la fanciullina poteva starsene seduta, e vogare da un lato all’altro del piatto, servendosi di due setole bianche, a guisa di remi. Faceva proprio un bellissimo vedere! Pollicina poi sapeva anche cantare; e così aggraziato, così dolce era il suo canto, che mai s’era sentito l’uguale.

Una notte se ne stava nel suo bel lettino, quando capitò un vecchio rospo, che s’era ficcato dentro per un vetro rotto della finestra. Il rospo era molto brutto, grosso e viscido: saltò addirittura sulla tavola, dove Pollicina dormiva sotto la sua foglia di rosa.

"Ecco una bella sposina per il mio figliuolo!" - disse il rospo; prese il guscio di noce, dove Pollicina giaceva addormentata, e via d’un salto in giardino.

Là c’era un largo fossato d’acqua corrente; ma il margine era fangoso e molle e quivi abitava il rospo col suo figliuolo. Uh, com’era brutto, anche lui! Tutto il ritratto di suo padre! "Coak! coak! Brek-kek-kex!" - ecco tutto quello che seppe dire quando vide la bella ragazzina dentro al guscio di noce.

"Non parlare così forte, chè la svegli!" - disse il vecchio rospo: "Potrebbe scapparci: è leggera come una piuma di cigno!... La metteremo nel fossato, sopra una di quelle grandi foglie di ninfea. Piccola e leggera com’è, si troverà quasi in un’isola; e così non potrà fuggire, mentre noi prepareremo le sale di cerimonia nel pantano, dove avete da metter su casa."

Nel fosso, crescevano infatti molte ninfee, con grandi foglie verdi, che pareva navigassero sull’acqua. La foglia più lontana dalla riva era la più grande, ed a quella si diresse, nuotando, il vecchio rospo, e vi depose Pollicina col suo guscio di noce.

La piccolina si svegliò di buon mattino, e quando vide dov’era, si mise a piangere amaramente, perchè l’acqua circondava da tutte le parti la grande foglia verde, e non c’era modo di tornare a terra.

Il vecchio rospo era nel pantano, affaccendato a addobbare le stanze con giunchi e ninfee gialle: voleva farle proprio belle per la giovine nuora. Poi si avviò, col suo brutto figliuolo, alla foglia dove stava Pollicina. Volevano prendere il suo bel lettino, e portarlo nella camera nuziale, prima di menarci la sposa. Il vecchio rospo fece un profondo inchino nell’acqua, e le disse:

"Ecco mio figlio: egli sarà tuo sposo, e vivrete magnificamente nel pantano."

"Coak! Coak! Brek-kek-kex!" - fu tutto quanto il figliuolo trovò di meglio.

Poi presero il bel lettino, e via a nuoto con esso; e Pollicina rimase lì tutta in lacrime sulla sua foglia verde, perchè non le piaceva punto di andar a vivere con quello schifoso vecchio rospo e di avere per marito il suo brutto figliuolo. I pesciolini, che nuotavano sott’acqua, avevano sentito le parole del rospo; e per ciò levarono il capo dall’acqua, curiosi di vedere la ragazzina. Quando la videro così bella, furono tutti dispiacenti che avesse da andar a stare con quei brutti rospacci. No, no; non era vita per lei! Si riunirono tutti intorno al gambo della foglia sulla quale stava la ragazzina, e coi loro dentini lo spezzarono, per modo che la foglia fu portata via dalla corrente, e così Pollicina se ne andò sull’acqua lontano lontano, dove i rospi non la potevano più pigliare.

Pollicina viaggiò a traverso villaggi e città, e gli uccellini dei cespugli, quando la vedevano passare, dicevano: "Che bella ragazzina!" La foglia navigava sempre avanti e avanti, sinchè Pollicina uscì dai confini del Regno.

Un bel farfallone bianco svolazzava sempre intorno alla foglia e alla fine vi si posò. Pollicina gli piaceva, ed essa era molto contenta: oramai i rospi non potevano più pigliarla, ed eran così belli i paesi per cui passava!... Il sole brillava sull’acqua, e l’acqua scintillava come il più splendido oro. Pollicina si tolse la cintura, ne legò un capo intorno al corpo del farfallone ed assicurò l’altro capo del nastro alla foglia.

Passò per l’aria un maggiolino: la vide e subito le abbrancò con le zampine la vita sottile e volò via con essa, su di un albero. La foglia verde continuò a navigare portata dall’acqua, e con essa andò il farfallone, perchè vi era legato e non poteva liberarsi.

Misericordia! che paura ebbe la povera Pollicina, quando si sentì portata a volo sull’albero! Ma specialmente le rincresceva per il bel farfallone bianco ch’essa aveva legato alla foglia; perchè se non gli riusciva di liberarsi, gli sarebbe toccato morir di fame. Il maggiolino in vece non si prendeva pensiero di tutto ciò. S’era seduto con lei sulla foglia più grande dell’albero; le aveva fatto mangiare la parte più dolce dei fiori, e le aveva dichiarato ch’era molto carina, sebbene non somigliasse per nulla ad un maggiolino. Poi ricevettero la visita di tutti i maggiolini pigionali dello stesso albero: essi guardavano Pollicina, e dicevano:

"Peccato! due gambe sole... Che miseria!"

"E nemmeno ha le antenne!"

"Che vita sottile! Somiglia ad una creatura umana. Dio, com’è brutta!" - dicevano tutte le signore.

E pure Pollicina era tanto bella. Anche il maggiolino che l’aveva rapita, l’aveva compreso; ma quando tutti gli altri dissero ch’era brutta, dovette anch’egli persuadersene alla fine, e non volle più saperne: andasse pure dove più le piaceva. E allora la portarono giù dall’albero a volo, e la deposero su di una margheritina; ed essa rimase lì a piangere, perchè era tanto brutta, che nemmeno i maggiolini volevano saperne di lei. In vece non era vero: era la più bella creaturina che si potesse immaginare, fragile e delicata come una foglia di rosa.

Per tutta l’estate, la povera Pollicina visse sola soletta nell’immensa foresta. S’intrecciò un lettino di fili d’erba, e lo appese sotto un trifoglio, per essere al riparo dalla pioggia. Si cibava del miele che sta dentro ai fiori e beveva la rugiada che trovava ogni mattina fresca nel cavo delle foglie. L’estate e l’autunno passarono così, alla meglio; ma ora veniva l’inverno, il lungo crudo inverno. Tutti gli uccellini, che avevano cantato così dolcemente intorno a lei, se ne volavano via; alberi e fiori perdevano le foglie; intirizzito, il grande trifoglio, sotto il quale aveva vissuto, rabbrividiva tutto, ed era ridotto oramai un povero gambo vizzo e giallo: ed essa pure aveva tanto freddo, con le vesti così a brandelli, fragile e delicata com’era... Povera Pollicina, si sentiva gelare. Cominciò a nevicare, ed ogni fiocco di neve che le cadeva sopra era per essa come tutta una palata sopra uno di noi, perchè noi siamo grandi ed essa era alta forse appena due dita. Si ravvolse in una foglia secca, ma quella si spaccò per metà, e non valse a riscaldarla - ed essa tremava di freddo...

Vicino al bosco nel quale abitava, c’era un campo di grano; il grano, però, non c’era più da un pezzo; soltanto le stoppie secche spuntavano dal terreno gelato. E queste, per essa, rappresentavano come una grande foresta, dove si aggirava tutta tremante di freddo... Una volta arrivò all’uscio del topo di campo. Questo topo s’era fatto un piccolo buco sotto ai fusti del grano, e là viveva al caldo, con tutti i suoi comodi, ed aveva una stanza intera piena di grano, una magnifica cucina ed una dispensa. La povera Pollicina stava alla porta, proprio come una piccola mendicante, e domandò in carità un mezzo chicco d’orzo, perchè erano due giorni che non aveva assaggiato nemmeno un bocconcino.

"Povera creaturina!" - esclamò il topo, perchè, dopo tutto, era un buon vecchio topone: "Vieni nella mia stanza calda e desina con me."

E poi, siccome i modi di Pollicina gli piacquero, le disse: "Se vuoi, puoi rimanere con me anche tutto l’inverno, ma, in pagamento, devi tenermi pulite e ordinate le stanze, e raccontarmi qualche novellina, perchè ho un debole per le novelle io."

E Pollicina fece come aveva detto il buon vecchio topone, e passò un ottimo periodo di quiete in casa di lui.

"Presto avremo una visita," - disse il topo "Il mio vicino ha preso l’abitudine di venirmi a trovare una volta la settimana. È anche meglio provveduto di me; ha certe grandi sale ed una magnifica pelliccia di velluto nero... Basterebbe che tu riuscissi a farti sposare: saresti sistemata bene per sempre. Peccato che non ci veda!... Devi raccontargli le più belle novelle che sai."

Ma a Pollicina poco importava di ciò, e non sapeva che farsi del vicino, perchè era un talpone. Venne in pelliccia nera, a fare la sua visita. Il topo badava a dire ch’era ricchissimo e molto istruito, e che la casa di lui era venti volte più grande della sua, e che aveva molta erudizione; ma non amava il sole nè i bei fiori, e non sapeva che dirne male, perchè non li aveva mai veduti.

Pollicina dovette cantare: e cantò "Maggiolino, vola, vola!" e "Quando il Priore gira pei prati." E allora il talpone s’innamorò di lei, per la deliziosa sua voce: ma non disse nulla, perchè era un talpone riflessivo.

Tra la sua casa e la loro, il talpone aveva scavato da poco una lunga galleria; e Pollicina ed il vecchio topo ebbero licenza di passeggiarvi qualunque volta loro piacesse. Egli si credette in dovere di avvisarli, però, che non avessero da impaurirsi di un uccello morto che giaceva nel corridoio. Era un uccello intero, col becco e le ali; doveva esser morto da poco, al principiar dell’inverno, ed era sepolto per l’appunto dove il talpone aveva aperto il suo passaggio.

Il talpone prese in bocca un pezzetto di legno fradicio, che brillava come un lumicino, e andò innanzi a far loro strada per il lungo corridoio buio. Quando arrivarono al luogo dove giaceva l’uccello morto, il talpone urtò la volta con quel suo nasaccio, formando così un grande foro, che lasciò penetrare la luce del giorno. Nel mezzo del pavimento, giaceva una rondine morta, con le belle ali strette lungo il corpo, ed il capino e le zampe raccolte sotto le penne: il povero uccelletto era certo morto di freddo. Pollicina ne fu molto dolente: provava una grande tenerezza per tutti gli uccellini, che aveva sentiti cantare e cinguettar così bene durante l’estate. Ma il talpone gli diede una spinta, con quelle sue gambe torte, e disse: "Questo, almeno, ha finito di zufolare. Dev’essere una grande miseria nascere uccelli. Ringrazio Dio che a nessuno de’ miei figliuoli possa toccare; un uccello come questo non ha altro che il suo videvit, videvit: e poi, nell’inverno, gli tocca morir di fame."

"Ah, sì, avete ben ragione di parlare così voi, che siete savio!" - approvò il topo: "A che serve tutto il loro videvit, videvit, quando viene l’inverno? Bisogna che muoiano di fame e di freddo. Dicono, però, che questo sia di ottimo gusto e molto aristocratico."

Pollicina non disse nulla; ma quando i due ebbero voltate le spalle all’uccellino morto, si chinò, scostò le penne di sopra al capino, e lo baciò sugli occhi chiusi.

"Forse era lui che sentivo cantare così bene nell’estate..." - pensò: "Quanto piacere mi faceva, povero bell’uccellino!"

Il talpone richiuse il buco da cui penetrava la luce del giorno e riaccompagnò gli ospiti a casa. Ma nella notte Pollicina non poteva chiuder occhio; e allora si alzò, tessè un bel tappeto di pagliuzze e fili d’erba secca, e andò a distenderlo sul corpo dell’uccellino: poi, perchè stesse ben caldo, gli sparse allato certi sottili stami di fiori, soffici come il cotone, che aveva trovati nella camera del topo.

"Addio, bell’uccellino caro!" - gli disse: "Addio, e grazie per le tue dolci canzoni di quest’estate, quando tutti gli alberi eran verdi, ed il sole splendeva così caldo sopra di noi!" E si strinse sul cuore il capino della rondinella. Ma l’uccello non era morto; era soltanto intorpidito dal freddo, ed ora, sentendo un po’ di tepore, riprendeva i sensi.

Nell’autunno tutte le rondini volano verso i paesi caldi; ma se una ritarda e si lascia sorprendere dal freddo, cade come morta, e rimane lì dov’è caduta sin che la neve gelida la ricopre.

Pollicina tremava tutta; era stata tale una sorpresa!... E poi la rondine era grande, molto grande, a paragone di lei, ch’era alta appena mezzo pollice. Ma si fece animo: mise i soffici stami ancora più accosto al povero uccello, andò a prendere una foglia che formava la coperta del suo lettino, e gliela pose sul capo.

La notte dopo, tornò pian pianino nella galleria: la rondine oramai era viva, ma tanto debole... Potè appena aprir gli occhi per un momento e guardare Pollicina, la quale le stava dinanzi con un pezzetto di legno imporrito in mano, perchè lanterne non ne aveva.

"Grazie, mia bella bambina!" - mormorò la rondinella malata: "Mi hai riscaldato magnificamente. Tra poco riprenderò le mie forze, e sarò di nuovo capace di volare al sole caldo."

"Oh!" - diss’ella: "è così freddo fuori!... Nevica e gela da per tutto. Sta’ nel tuo lettino caldo, ed io ti farò da infermiera."

Poi portò alla rondine un po’ d’acqua nel petalo di un fiore; e la rondine bevette, e le raccontò come si fosse ferita un’ala in un pruneto, e non avesse quindi potuto volare rapida come le compagne, le quali erano andate lontano lontano, via di lì, via di lì, nei paesi caldi. E così aveva finito per cadere a terra: ma poi non ricordava più altro, e non sapeva come fosse capitata nella buca, dove Pollicina l’aveva trovata.

Tutto l’inverno la rondine rimase lì, e Pollicina la curò del suo meglio, prestandole la più tenera assistenza. Nè il topo nè il talpone ne seppero nulla, e fu bene, perchè non potevano soffrire le rondini.

Appena venne la primavera, ed il sole riscaldò la terra, la rondine disse addio a Pollicina, e questa riaperse il buco che il talpone aveva fatto nella volta. Il sole irruppe allora trionfalmente nel sotterraneo e la rondine domandò a Pollicina se non le sarebbe piaciuto di partire con lei: poteva sederlesi sul dorso, e sarebbero volate insieme nella verde foresta. Ma Pollicina sapeva che il vecchio topo avrebbe provato molto dolore per la sua partenza.

"No; non posso!" - disse alla rondine.

"Addio, addio, allora, mia bella bambina buona!" - disse la rondine, e volò via, al sole. Pollicina la seguì con lo sguardo sin che gli occhi le si empirono di lacrime, perchè era cordialmente affezionata al povero uccellino.

"Videvit! videvit!" - fece la rondinella, e volò nell’immensa foresta.

Pollicina divenne molto triste: non le era permesso di uscire nel tepore del sole. Il grano ch’era seminato sopra la casa del topo cresceva alto alto nell’aria; e formava un bosco addirittura impenetrabile per la ragazzina, che misurava appena mezzo pollice.

"Durante l’estate, bisognerà pensare al corredo, Pollicina!" disse il topo di campo: il vicino, infatti, quel noioso di un talpone con la pelliccia di velluto, era venuto a domandarla in isposa. - "È una grande fortuna questa per una povera figliuola come te. Ora, bisogna che tu ti dia le mani attorno, per prepararti un po’ di biancheria e un po’ di vestiario: la biancheria da letto e quella da tavola, te la darò io, e quando sarai la moglie del talpone, non mancherai di nulla."

Pollicina dovette mettersi al filatoio, e il topo stipendiò quattro ragni, perchè avessero a tessere per lei giorno e notte. Ogni sera il talpone veniva a farle la sua visita, e sempre badava a dire che, finita l’estate, quando il sole non bruciasse più a quel modo, - chè ora aveva ridotto la terra dura come la pietra, - finita l’estate, avrebbero fatto le nozze. Ma Pollicina non era punto contenta, perchè quel noioso talpone non le piaceva.

Ogni mattina allo spuntar del sole, ogni sera al tramonto, si affacciava un pochino all’uscio; e, quando il vento, soffiando tra il grano, scostava un po’ le foglie e le pannocchie, così da permetterle di vedere un lembo di cielo, pensava com’era bello e luminoso lassù, e si struggeva di rivedere la sua cara rondinella: certo, oramai, essa era volata via per sempre, via di lì, via di lì, nella verde foresta.

Intanto venne l’autunno, ed il corredo di Pollicina era tutto pronto. "Tra quattro settimane si celebreranno le nozze," - disse il topo di campo a Pollicina.

Ma Pollicina si mise a piangere, e dichiarò che non voleva saperne di quel noioso talpone.

"Non dire sciocchezze, fammi il piacere!" - esclamò il topo: "E sopra tutto non farmi l’ostinata, sai? Se no, co’ miei denti bianchi, son capace di ridurti alla ragione. È un buon partito, e tu lo sposerai. Nemmeno la Regina ha una pelliccia di velluto nero come l’ha lui; e nella sua cucina e nelle cantine c’è d’ogni ben di Dio. Ringrazia il Signore, piuttosto, della fortuna che ti è toccata."

E così giunse il giorno delle nozze. Il talpone era già venuto a prender Pollicina, ed essa doveva andar a vivere con lui, giù giù sotto terra, senza poter mai uscire alla luce del sole, perchè il sole a lui non piaceva. La povera piccolina era disperata: doveva dire addio per sempre al bel sole, cui il topo di campo, almeno, le aveva concesso di guardare ogni tanto, dalla soglia dell’uscio.

"Addio, bel sole mio!" - disse, e tese le braccia verso il cielo; poi si allontanò di qualche passo dalla casa del topo, perchè ora le pannocchie erano colte, e non rimanevano più nel campo che i fusti secchi. - "Addio!" ripetè ancora una volta, e buttò le braccia intorno alla corolla d’un fiorellino rosso, l’unico che ancora rimanesse nel campo: - "E tu salutami la mia cara rondinetta, se la rivedi."

"Videvit! Videvit!" - sentì a un tratto sopra il suo capo. Guardò su: era la rondinella, che per l’appunto passava di lì a volo. Quando scorse Pollicina, fu tutta contenta; e Pollicina le raccontò come fosse disperata, perchè le toccava prendere per marito quel brutto talpone, e andare a vivere sotto terra, dove non riluce mai sole. E non poteva rattenere il pianto.

"L’inverno è vicino," - disse la rondine: "ed io sto per prendere il volo verso i paesi caldi: vuoi venire con me? Ti metterai sul mio dorso, e voleremo lontano dal brutto talpone e dal suo buio palazzo, via di qui, via di qui, nei paesi caldi, di là dai monti, dove il sole è più ardente, via di qui, dov’è sempre estate, via di qui, dove ci sono sempre fiori. Vieni, vieni con me, cara Pollicina, che mi hai salvato la vita, quando giacevo gelata nel buio sotterraneo."

"Sì, verrò con te!" - disse Pollicina; e sedette sul dorso dell’uccello: posò i piedini su di un’ala spiegata e legò fortemente la propria cintura ad una delle penne maestre. Poi la rondinella spiccò il volo, per boschi e per mari, su su alto, al di sopra delle montagne dove la neve non si scioglie mai; e Pollicina sentiva freddo nell’aria frizzante; ma allora si ficcava sotto le penne della rondine e stava lì, al calduccino, e non metteva fuori il capo se non per ammirare tutte quelle bellezze tra le quali passava.

Alla fine arrivarono nei paesi caldi. Là il sole splendeva più vivido che da noi; il cielo sembrava il doppio più alto; sui poggi e nei campi, filari di viti che non finivano più, e sulle viti grappoloni enormi color di viola e d’oro; i limoni e gli aranci formavano boschi addirittura, tutti carichi di frutta: l’aria era profumata di mirto e di rose e nelle strade era tutta un’allegria di bimbi che giuocavano a rincorrere le farfalle screziate di mille colori. Ma la rondine non si fermò neppur lì; e vola, e vola, e vola, più volavano e più bello diveniva tutto all’intorno. Finalmente, sotto a certi begli alberi verdi, alti alti, presso ad un lago azzurro, eccoti un bel palazzo di marmo bianco e lucente. La vite si arrampicava per gli alti colonnati; sotto al tetto c’erano molti nidi di rondine, ed in uno di questi stava di casa la rondinella che aveva portato Pollicina.

"Ecco la mia casa!" - disse la rondine: "Ma non è giusto che tu abbia ad abitare qui. Non è ancora in ordine, - troppo ci manca! - e tu non ti troveresti bene. Scegliti uno di quei magnifici fiori che crescono laggiù, ed io ti ci poserò, e là dentro tu avrai tutto quello che puoi desiderare."

"Che gioia!" - disse Pollicina; e battè le manine.

C’era là vicino una grande colonna di marmo, caduta a terra e rotta in tre pezzi; ma intorno a quei frammenti crescevano grandi fiori bianchi, di meravigliosa bellezza. La rondine volò giù dal nido con Pollicina, e la depose su una di quelle grandi foglie. Ma quale non fu la sua sorpresa! Nel mezzo del fiore, bianco e trasparente che pareva di cristallo, stava seduto un omettino piccino piccino. Aveva sul capo la più bella coroncina d’oro, e sulle spalle due alucce una più lucente dell’altra. Tra tutto, era poco più alto di Pollicina. Era il Genio del fiore, e in ogni fiore ce n’era uno - un omino o una donnina grandi così; ma quello era il Re, che comandava a tutti gli altri.

"Ah! com’è bello!" - sussurrò Pollicina alla rondinella.

Il piccolo Principe ebbe un grande spavento alla vista della rondine, perch’era un uccello addirittura gigantesco a paragone di lui, così piccolino. Ma quando vide Pollicina, fu tutto contento: era la più bella ragazzina, che avesse mai veduta. Perciò si tolse la corona d’oro e la pose sul capo di lei; poi le domandò che nome avesse e se volesse essere sua moglie, che sarebbe divenuta Regina di tutti i fiori. Ora, questo era tutt’altra specie di pretendente, dal figlio del rospo e dal talpone con la pelliccia vellutata. Non c’è da meravigliarsi, dunque, che al bel Principe Pollicina dicesse di sì. E fuori da ogni fiore vennero un cavaliere e una damina, così bellini, che era un incanto starli a guardare; e ciascuno portò a Pollicina il suo regalo di nozze; ma il regalo più gradito fu un bel paio d’ali, che avevano appartenuto ad una grande mosca bianca. Queste furono attaccate alle spalle di Pollicina, e allora ella potè volare da fiore a fiore. E fecero grandi feste, e pregarono la rondinella di cantare, dall’alto del suo nido, la canzone di nozze. La rondinella ci mise tutto l’impegno e cantò del suo meglio; ma in fondo al cuore era triste, perchè voleva tanto bene a Pollicina, tanto bene, e avrebbe voluto tenerla sempre con sè.

"Non devi più chiamarti Pollicina," - le disse il Re: "È un nome troppo brutto e tu sei troppo bella: da ora in poi, ti chiameremo Maia."

"Addio, addio!" - disse la rondinella; e dai paesi caldi, volò via di nuovo, via di lì, via di lì, verso il pallido cielo di Danimarca. Ritrovò il suo piccolo nido, sopra la finestra dell’uomo che sapeva raccontare le novelle, ed a lui cantò tutto quanto vide lì, videvidevidevit; e così siamo venuti a risaperlo anche noi.

 - Hans Christian Andersen -
 da: "Quaranta novelle" 
prima edizione 1835



Buona giornata a tutti :-)







giovedì 19 dicembre 2019

La Stazione - Robert J. Hastings

Nascosta da qualche parte nel vostro inconscio vi è una visione idilliaca. 
Ci vediamo in un lungo viaggio su tutto il continente. 
Viaggiamo in treno. 
Fuori del finestrino ammiriamo il passaggio a livello, bestiame al pascolo su una collina lontana, fumo che fuoriesce da una centrale termica, file su file di grano e di mais, pianure e valli, montagne e dolci colline, profili di città e ville nei paesini. Ma dominante nella nostra mente è la destinazione finale. 
In un certo giorno a una certa ora entreremo nella stazione. 
Ci saranno bande musicali e sventolio di bandiere. 
Una volta arrivati lì, tanti sogni meravigliosi si avvereranno e i pezzi della nostra vita si completeranno a vicenda come un rompicapo portato a termine. Con quale irrequietezza percorriamo i corridoi, maledicendo i minuti d'ozio, aspettando, aspettando, aspettando la stazione. 
"Quando arriveremo in stazione, sarà fatta!" gridiamo. 
"Quando avrò diciotto anni." 
"Quando mi comprerò una Mercedes Benz nuova!" 
"Quando l'ultimo figlio avrà terminato l'Università." 
"Quando avrò finito di pagare il mutuo!" 
"Quando avrò la promozione." 
"Quando raggiungerò l'età della pensione, vivrò felice e contento!"
Prima o poi dobbiamo renderci conto che non vi è nessuna stazione, nessun luogo a cui arrivare una volta per tutte. 
La vera gioia della vita è il viaggio. La stazione è soltanto un sogno. 
Ci distanzia sempre. 
"Assapora l'attimo fuggente." 
Non sono i fardelli di oggi a fare impazzire gli uomini. 
Sono i rimpianti di ieri e le paure di domani. 
Rimpianti e paure sono ladri che ci derubano dell'oggi. 
Allora smettete di percorrere i corridoi e di contare i chilometri. 
Invece scalate più montagne, mangiate più gelato, camminate più spesso a piedi nudi, nuotate in più fiumi, ammirate più tramonti, ridete di più, piangete di meno. 
La vita deve essere vissuta a mano a mano che si procede. 
La stazione arriverà fin troppo presto." 

- Robert J. Hastings - 
Fonte: “Brodo caldo per l'anima” di  Jack Canfìeid e  Mark Victor Hansen,  Armenia Edizioni, 2004



Buona giornata a tutti :-)