C’era
una volta una donna che si struggeva di avere una bambina, magari piccina così;
ma non sapeva come fare a trovarsela. Andò dunque da una vecchia strega, e le
disse: "Desidererei tanto di avere una bambina piccina: sapete dirmi dove
potrei trovarne una?"
"Oh, è presto fatto!" - disse la strega: "Ecco qui un chicco d’orzo: non è della specie solita, che cresce nei poderi dei contadini e si dà a mangiare ai pulcini. Piantatelo in un vaso da fiori, e vedrete."
- Hans Christian Andersen -
da: " Quaranta
novelle"
"Oh, è presto fatto!" - disse la strega: "Ecco qui un chicco d’orzo: non è della specie solita, che cresce nei poderi dei contadini e si dà a mangiare ai pulcini. Piantatelo in un vaso da fiori, e vedrete."
"Grazie!"
- disse la donna; e diede alla strega dodici soldi - prezzo fisso. Andò a casa,
piantò il grano d’orzo: e lì per lì spuntò un bel fiore, che somigliava al
tulipano, con i petali però chiusi strettamente, come se fosse ancora in
boccio.
"Che
bel fiore!" - disse la donna: e baciò i petali rossi e gialli. Per
l’appunto mentre lo baciava, il fiore fece Ppa! e si aperse. Era un vero
tulipano, ora si conosceva benissimo; ma nel mezzo del fiore, seduta sui verdi
stami vellutati, c’era una bambina, delicata e graziosina, ch’era un piacere
vederla. Era alta forse appena mezzo pollice, e per ciò le misero nome
Pollicina.
Un
bel guscio di noce ben lucidato le serviva di culla: le materasse erano petali
di viole del pensiero, morbidi come il velluto, una foglia di rosa formava la
coperta. Là dentro dormiva la notte; ma il giorno giocava sopra la tavola, dove
la donna aveva posto un piatto, con una ghirlandetta di fiori tutt’all’ingiro
dell’orlo; lo stelo dei fiori era immerso nell’acqua, e sull’acqua galleggiava
un grande petalo di tulipano. In questo, la fanciullina poteva starsene seduta,
e vogare da un lato all’altro del piatto, servendosi di due setole bianche, a
guisa di remi. Faceva proprio un bellissimo vedere! Pollicina poi sapeva anche
cantare; e così aggraziato, così dolce era il suo canto, che mai s’era sentito
l’uguale.
Una
notte se ne stava nel suo bel lettino, quando capitò un vecchio rospo, che
s’era ficcato dentro per un vetro rotto della finestra. Il rospo era molto
brutto, grosso e viscido: saltò addirittura sulla tavola, dove Pollicina
dormiva sotto la sua foglia di rosa.
"Ecco
una bella sposina per il mio figliuolo!" - disse il rospo; prese il guscio
di noce, dove Pollicina giaceva addormentata, e via d’un salto in giardino.
Là
c’era un largo fossato d’acqua corrente; ma il margine era fangoso e molle e
quivi abitava il rospo col suo figliuolo. Uh, com’era brutto, anche lui! Tutto
il ritratto di suo padre! "Coak! coak! Brek-kek-kex!" - ecco tutto quello
che seppe dire quando vide la bella ragazzina dentro al guscio di noce.
"Non
parlare così forte, chè la svegli!" - disse il vecchio rospo:
"Potrebbe scapparci: è leggera come una piuma di cigno!... La metteremo
nel fossato, sopra una di quelle grandi foglie di ninfea. Piccola e leggera
com’è, si troverà quasi in un’isola; e così non potrà fuggire, mentre noi
prepareremo le sale di cerimonia nel pantano, dove avete da metter su
casa."
Nel
fosso, crescevano infatti molte ninfee, con grandi foglie verdi, che pareva
navigassero sull’acqua. La foglia più lontana dalla riva era la più grande, ed
a quella si diresse, nuotando, il vecchio rospo, e vi depose Pollicina col suo
guscio di noce.
La
piccolina si svegliò di buon mattino, e quando vide dov’era, si mise a piangere
amaramente, perchè l’acqua circondava da tutte le parti la grande foglia verde,
e non c’era modo di tornare a terra.
Il
vecchio rospo era nel pantano, affaccendato a addobbare le stanze con giunchi e
ninfee gialle: voleva farle proprio belle per la giovine nuora. Poi si avviò,
col suo brutto figliuolo, alla foglia dove stava Pollicina. Volevano prendere
il suo bel lettino, e portarlo nella camera nuziale, prima di menarci la sposa.
Il vecchio rospo fece un profondo inchino nell’acqua, e le disse:
"Ecco
mio figlio: egli sarà tuo sposo, e vivrete magnificamente nel pantano."
"Coak!
Coak! Brek-kek-kex!" - fu tutto quanto il figliuolo trovò di meglio.
Poi
presero il bel lettino, e via a nuoto con esso; e Pollicina rimase lì tutta in lacrime
sulla sua foglia verde, perchè non le piaceva punto di andar a vivere con
quello schifoso vecchio rospo e di avere per marito il suo brutto figliuolo. I
pesciolini, che nuotavano sott’acqua, avevano sentito le parole del rospo; e
per ciò levarono il capo dall’acqua, curiosi di vedere la ragazzina. Quando la
videro così bella, furono tutti dispiacenti che avesse da andar a stare con
quei brutti rospacci. No, no; non era vita per lei! Si riunirono tutti intorno
al gambo della foglia sulla quale stava la ragazzina, e coi loro dentini lo
spezzarono, per modo che la foglia fu portata via dalla corrente, e così
Pollicina se ne andò sull’acqua lontano lontano, dove i rospi non la potevano
più pigliare.
Pollicina
viaggiò a traverso villaggi e città, e gli uccellini dei cespugli, quando la
vedevano passare, dicevano: "Che bella ragazzina!" La foglia navigava
sempre avanti e avanti, sinchè Pollicina uscì dai confini del Regno.
Un
bel farfallone bianco svolazzava sempre intorno alla foglia e alla fine vi si
posò. Pollicina gli piaceva, ed essa era molto contenta: oramai i rospi non
potevano più pigliarla, ed eran così belli i paesi per cui passava!... Il sole
brillava sull’acqua, e l’acqua scintillava come il più splendido oro. Pollicina
si tolse la cintura, ne legò un capo intorno al corpo del farfallone ed
assicurò l’altro capo del nastro alla foglia.
Passò
per l’aria un maggiolino: la vide e subito le abbrancò con le zampine la vita
sottile e volò via con essa, su di un albero. La foglia verde continuò a navigare
portata dall’acqua, e con essa andò il farfallone, perchè vi era legato e non
poteva liberarsi.
Misericordia!
che paura ebbe la povera Pollicina, quando si sentì portata a volo sull’albero!
Ma specialmente le rincresceva per il bel farfallone bianco ch’essa aveva
legato alla foglia; perchè se non gli riusciva di liberarsi, gli sarebbe
toccato morir di fame. Il maggiolino in vece non si prendeva pensiero di tutto
ciò. S’era seduto con lei sulla foglia più grande dell’albero; le aveva fatto
mangiare la parte più dolce dei fiori, e le aveva dichiarato ch’era molto
carina, sebbene non somigliasse per nulla ad un maggiolino. Poi ricevettero la
visita di tutti i maggiolini pigionali dello stesso albero: essi guardavano
Pollicina, e dicevano:
"Peccato!
due gambe sole... Che miseria!"
"E
nemmeno ha le antenne!"
"Che
vita sottile! Somiglia ad una creatura umana. Dio, com’è brutta!" -
dicevano tutte le signore.
E
pure Pollicina era tanto bella. Anche il maggiolino che l’aveva rapita, l’aveva
compreso; ma quando tutti gli altri dissero ch’era brutta, dovette anch’egli
persuadersene alla fine, e non volle più saperne: andasse pure dove più le
piaceva. E allora la portarono giù dall’albero a volo, e la deposero su di una
margheritina; ed essa rimase lì a piangere, perchè era tanto brutta, che
nemmeno i maggiolini volevano saperne di lei. In vece non era vero: era la più
bella creaturina che si potesse immaginare, fragile e delicata come una foglia
di rosa.
Per
tutta l’estate, la povera Pollicina visse sola soletta nell’immensa foresta.
S’intrecciò un lettino di fili d’erba, e lo appese sotto un trifoglio, per
essere al riparo dalla pioggia. Si cibava del miele che sta dentro ai fiori e
beveva la rugiada che trovava ogni mattina fresca nel cavo delle foglie. L’estate
e l’autunno passarono così, alla meglio; ma ora veniva l’inverno, il lungo
crudo inverno. Tutti gli uccellini, che avevano cantato così dolcemente intorno
a lei, se ne volavano via; alberi e fiori perdevano le foglie; intirizzito, il
grande trifoglio, sotto il quale aveva vissuto, rabbrividiva tutto, ed era
ridotto oramai un povero gambo vizzo e giallo: ed essa pure aveva tanto freddo,
con le vesti così a brandelli, fragile e delicata com’era... Povera Pollicina,
si sentiva gelare. Cominciò a nevicare, ed ogni fiocco di neve che le cadeva
sopra era per essa come tutta una palata sopra uno di noi, perchè noi siamo
grandi ed essa era alta forse appena due dita. Si ravvolse in una foglia secca,
ma quella si spaccò per metà, e non valse a riscaldarla - ed essa tremava di
freddo...
Vicino
al bosco nel quale abitava, c’era un campo di grano; il grano, però, non c’era
più da un pezzo; soltanto le stoppie secche spuntavano dal terreno gelato. E
queste, per essa, rappresentavano come una grande foresta, dove si aggirava
tutta tremante di freddo... Una volta arrivò all’uscio del topo di campo.
Questo topo s’era fatto un piccolo buco sotto ai fusti del grano, e là viveva
al caldo, con tutti i suoi comodi, ed aveva una stanza intera piena di grano,
una magnifica cucina ed una dispensa. La povera Pollicina stava alla porta,
proprio come una piccola mendicante, e domandò in carità un mezzo chicco
d’orzo, perchè erano due giorni che non aveva assaggiato nemmeno un bocconcino.
"Povera
creaturina!" - esclamò il topo, perchè, dopo tutto, era un buon vecchio
topone: "Vieni nella mia stanza calda e desina con me."
E
poi, siccome i modi di Pollicina gli piacquero, le disse: "Se vuoi, puoi
rimanere con me anche tutto l’inverno, ma, in pagamento, devi tenermi pulite e
ordinate le stanze, e raccontarmi qualche novellina, perchè ho un debole per le
novelle io."
E
Pollicina fece come aveva detto il buon vecchio topone, e passò un ottimo
periodo di quiete in casa di lui.
"Presto
avremo una visita," - disse il topo "Il mio vicino ha preso
l’abitudine di venirmi a trovare una volta la settimana. È anche meglio
provveduto di me; ha certe grandi sale ed una magnifica pelliccia di velluto
nero... Basterebbe che tu riuscissi a farti sposare: saresti sistemata bene per
sempre. Peccato che non ci veda!... Devi raccontargli le più belle novelle che
sai."
Ma
a Pollicina poco importava di ciò, e non sapeva che farsi del vicino, perchè
era un talpone. Venne in pelliccia nera, a fare la sua visita. Il topo badava a
dire ch’era ricchissimo e molto istruito, e che la casa di lui era venti volte
più grande della sua, e che aveva molta erudizione; ma non amava il sole nè i
bei fiori, e non sapeva che dirne male, perchè non li aveva mai veduti.
Pollicina
dovette cantare: e cantò "Maggiolino, vola, vola!" e "Quando il
Priore gira pei prati." E allora il talpone s’innamorò di lei, per la
deliziosa sua voce: ma non disse nulla, perchè era un talpone riflessivo.
Tra
la sua casa e la loro, il talpone aveva scavato da poco una lunga galleria; e
Pollicina ed il vecchio topo ebbero licenza di passeggiarvi qualunque volta
loro piacesse. Egli si credette in dovere di avvisarli, però, che non avessero
da impaurirsi di un uccello morto che giaceva nel corridoio. Era un uccello
intero, col becco e le ali; doveva esser morto da poco, al principiar
dell’inverno, ed era sepolto per l’appunto dove il talpone aveva aperto il suo
passaggio.
Il
talpone prese in bocca un pezzetto di legno fradicio, che brillava come un
lumicino, e andò innanzi a far loro strada per il lungo corridoio buio. Quando
arrivarono al luogo dove giaceva l’uccello morto, il talpone urtò la volta con
quel suo nasaccio, formando così un grande foro, che lasciò penetrare la luce
del giorno. Nel mezzo del pavimento, giaceva una rondine morta, con le belle
ali strette lungo il corpo, ed il capino e le zampe raccolte sotto le penne: il
povero uccelletto era certo morto di freddo. Pollicina ne fu molto dolente:
provava una grande tenerezza per tutti gli uccellini, che aveva sentiti cantare
e cinguettar così bene durante l’estate. Ma il talpone gli diede una spinta,
con quelle sue gambe torte, e disse: "Questo, almeno, ha finito di
zufolare. Dev’essere una grande miseria nascere uccelli. Ringrazio Dio che a
nessuno de’ miei figliuoli possa toccare; un uccello come questo non ha altro
che il suo videvit, videvit: e poi, nell’inverno, gli tocca morir di
fame."
"Ah,
sì, avete ben ragione di parlare così voi, che siete savio!" - approvò il
topo: "A che serve tutto il loro videvit, videvit, quando viene l’inverno?
Bisogna che muoiano di fame e di freddo. Dicono, però, che questo sia di ottimo
gusto e molto aristocratico."
Pollicina
non disse nulla; ma quando i due ebbero voltate le spalle all’uccellino morto,
si chinò, scostò le penne di sopra al capino, e lo baciò sugli occhi chiusi.
"Forse
era lui che sentivo cantare così bene nell’estate..." - pensò:
"Quanto piacere mi faceva, povero bell’uccellino!"
Il
talpone richiuse il buco da cui penetrava la luce del giorno e riaccompagnò gli
ospiti a casa. Ma nella notte Pollicina non poteva chiuder occhio; e allora si
alzò, tessè un bel tappeto di pagliuzze e fili d’erba secca, e andò a
distenderlo sul corpo dell’uccellino: poi, perchè stesse ben caldo, gli sparse
allato certi sottili stami di fiori, soffici come il cotone, che aveva trovati
nella camera del topo.
"Addio,
bell’uccellino caro!" - gli disse: "Addio, e grazie per le tue dolci
canzoni di quest’estate, quando tutti gli alberi eran verdi, ed il sole
splendeva così caldo sopra di noi!" E si strinse sul cuore il capino della
rondinella. Ma l’uccello non era morto; era soltanto intorpidito dal freddo, ed
ora, sentendo un po’ di tepore, riprendeva i sensi.
Nell’autunno
tutte le rondini volano verso i paesi caldi; ma se una ritarda e si lascia
sorprendere dal freddo, cade come morta, e rimane lì dov’è caduta sin che la
neve gelida la ricopre.
Pollicina
tremava tutta; era stata tale una sorpresa!... E poi la rondine era grande,
molto grande, a paragone di lei, ch’era alta appena mezzo pollice. Ma si fece
animo: mise i soffici stami ancora più accosto al povero uccello, andò a
prendere una foglia che formava la coperta del suo lettino, e gliela pose sul
capo.
La
notte dopo, tornò pian pianino nella galleria: la rondine oramai era viva, ma
tanto debole... Potè appena aprir gli occhi per un momento e guardare
Pollicina, la quale le stava dinanzi con un pezzetto di legno imporrito in
mano, perchè lanterne non ne aveva.
"Grazie,
mia bella bambina!" - mormorò la rondinella malata: "Mi hai
riscaldato magnificamente. Tra poco riprenderò le mie forze, e sarò di nuovo
capace di volare al sole caldo."
"Oh!"
- diss’ella: "è così freddo fuori!... Nevica e gela da per tutto. Sta’ nel
tuo lettino caldo, ed io ti farò da infermiera."
Poi
portò alla rondine un po’ d’acqua nel petalo di un fiore; e la rondine bevette,
e le raccontò come si fosse ferita un’ala in un pruneto, e non avesse quindi
potuto volare rapida come le compagne, le quali erano andate lontano lontano,
via di lì, via di lì, nei paesi caldi. E così aveva finito per cadere a terra:
ma poi non ricordava più altro, e non sapeva come fosse capitata nella buca,
dove Pollicina l’aveva trovata.
Tutto
l’inverno la rondine rimase lì, e Pollicina la curò del suo meglio, prestandole
la più tenera assistenza. Nè il topo nè il talpone ne seppero nulla, e fu bene,
perchè non potevano soffrire le rondini.
Appena
venne la primavera, ed il sole riscaldò la terra, la rondine disse addio a
Pollicina, e questa riaperse il buco che il talpone aveva fatto nella volta. Il
sole irruppe allora trionfalmente nel sotterraneo e la rondine domandò a
Pollicina se non le sarebbe piaciuto di partire con lei: poteva sederlesi sul
dorso, e sarebbero volate insieme nella verde foresta. Ma Pollicina sapeva che
il vecchio topo avrebbe provato molto dolore per la sua partenza.
"No;
non posso!" - disse alla rondine.
"Addio,
addio, allora, mia bella bambina buona!" - disse la rondine, e volò via,
al sole. Pollicina la seguì con lo sguardo sin che gli occhi le si empirono di
lacrime, perchè era cordialmente affezionata al povero uccellino.
"Videvit!
videvit!" - fece la rondinella, e volò nell’immensa foresta.
Pollicina
divenne molto triste: non le era permesso di uscire nel tepore del sole. Il
grano ch’era seminato sopra la casa del topo cresceva alto alto nell’aria; e
formava un bosco addirittura impenetrabile per la ragazzina, che misurava
appena mezzo pollice.
"Durante
l’estate, bisognerà pensare al corredo, Pollicina!" disse il topo di
campo: il vicino, infatti, quel noioso di un talpone con la pelliccia di
velluto, era venuto a domandarla in isposa. - "È una grande fortuna questa
per una povera figliuola come te. Ora, bisogna che tu ti dia le mani attorno,
per prepararti un po’ di biancheria e un po’ di vestiario: la biancheria da
letto e quella da tavola, te la darò io, e quando sarai la moglie del talpone,
non mancherai di nulla."
Pollicina
dovette mettersi al filatoio, e il topo stipendiò quattro ragni, perchè
avessero a tessere per lei giorno e notte. Ogni sera il talpone veniva a farle
la sua visita, e sempre badava a dire che, finita l’estate, quando il sole non
bruciasse più a quel modo, - chè ora aveva ridotto la terra dura come la
pietra, - finita l’estate, avrebbero fatto le nozze. Ma Pollicina non era punto
contenta, perchè quel noioso talpone non le piaceva.
Ogni
mattina allo spuntar del sole, ogni sera al tramonto, si affacciava un pochino
all’uscio; e, quando il vento, soffiando tra il grano, scostava un po’ le
foglie e le pannocchie, così da permetterle di vedere un lembo di cielo,
pensava com’era bello e luminoso lassù, e si struggeva di rivedere la sua cara
rondinella: certo, oramai, essa era volata via per sempre, via di lì, via di
lì, nella verde foresta.
Intanto
venne l’autunno, ed il corredo di Pollicina era tutto pronto. "Tra quattro
settimane si celebreranno le nozze," - disse il topo di campo a Pollicina.
Ma
Pollicina si mise a piangere, e dichiarò che non voleva saperne di quel noioso
talpone.
"Non
dire sciocchezze, fammi il piacere!" - esclamò il topo: "E sopra
tutto non farmi l’ostinata, sai? Se no, co’ miei denti bianchi, son capace di
ridurti alla ragione. È un buon partito, e tu lo sposerai. Nemmeno la Regina ha
una pelliccia di velluto nero come l’ha lui; e nella sua cucina e nelle cantine
c’è d’ogni ben di Dio. Ringrazia il Signore, piuttosto, della fortuna che ti è
toccata."
E
così giunse il giorno delle nozze. Il talpone era già venuto a prender
Pollicina, ed essa doveva andar a vivere con lui, giù giù sotto terra, senza
poter mai uscire alla luce del sole, perchè il sole a lui non piaceva. La
povera piccolina era disperata: doveva dire addio per sempre al bel sole, cui
il topo di campo, almeno, le aveva concesso di guardare ogni tanto, dalla soglia
dell’uscio.
"Addio,
bel sole mio!" - disse, e tese le braccia verso il cielo; poi si allontanò
di qualche passo dalla casa del topo, perchè ora le pannocchie erano colte, e
non rimanevano più nel campo che i fusti secchi. - "Addio!" ripetè
ancora una volta, e buttò le braccia intorno alla corolla d’un fiorellino
rosso, l’unico che ancora rimanesse nel campo: - "E tu salutami la mia
cara rondinetta, se la rivedi."
"Videvit!
Videvit!" - sentì a un tratto sopra il suo capo. Guardò su: era la
rondinella, che per l’appunto passava di lì a volo. Quando scorse Pollicina, fu
tutta contenta; e Pollicina le raccontò come fosse disperata, perchè le toccava
prendere per marito quel brutto talpone, e andare a vivere sotto terra, dove
non riluce mai sole. E non poteva rattenere il pianto.
"L’inverno
è vicino," - disse la rondine: "ed io sto per prendere il volo verso
i paesi caldi: vuoi venire con me? Ti metterai sul mio dorso, e voleremo
lontano dal brutto talpone e dal suo buio palazzo, via di qui, via di qui, nei
paesi caldi, di là dai monti, dove il sole è più ardente, via di qui, dov’è
sempre estate, via di qui, dove ci sono sempre fiori. Vieni, vieni con me, cara
Pollicina, che mi hai salvato la vita, quando giacevo gelata nel buio
sotterraneo."
"Sì,
verrò con te!" - disse Pollicina; e sedette sul dorso dell’uccello: posò i
piedini su di un’ala spiegata e legò fortemente la propria cintura ad una delle
penne maestre. Poi la rondinella spiccò il volo, per boschi e per mari, su su
alto, al di sopra delle montagne dove la neve non si scioglie mai; e Pollicina
sentiva freddo nell’aria frizzante; ma allora si ficcava sotto le penne della
rondine e stava lì, al calduccino, e non metteva fuori il capo se non per
ammirare tutte quelle bellezze tra le quali passava.
Alla
fine arrivarono nei paesi caldi. Là il sole splendeva più vivido che da noi; il
cielo sembrava il doppio più alto; sui poggi e nei campi, filari di viti che
non finivano più, e sulle viti grappoloni enormi color di viola e d’oro; i
limoni e gli aranci formavano boschi addirittura, tutti carichi di frutta:
l’aria era profumata di mirto e di rose e nelle strade era tutta un’allegria di
bimbi che giuocavano a rincorrere le farfalle screziate di mille colori. Ma la
rondine non si fermò neppur lì; e vola, e vola, e vola, più volavano e più
bello diveniva tutto all’intorno. Finalmente, sotto a certi begli alberi verdi,
alti alti, presso ad un lago azzurro, eccoti un bel palazzo di marmo bianco e
lucente. La vite si arrampicava per gli alti colonnati; sotto al tetto c’erano
molti nidi di rondine, ed in uno di questi stava di casa la rondinella che
aveva portato Pollicina.
"Ecco
la mia casa!" - disse la rondine: "Ma non è giusto che tu abbia ad
abitare qui. Non è ancora in ordine, - troppo ci manca! - e tu non ti troveresti
bene. Scegliti uno di quei magnifici fiori che crescono laggiù, ed io ti ci
poserò, e là dentro tu avrai tutto quello che puoi desiderare."
"Che
gioia!" - disse Pollicina; e battè le manine.
C’era
là vicino una grande colonna di marmo, caduta a terra e rotta in tre pezzi; ma
intorno a quei frammenti crescevano grandi fiori bianchi, di meravigliosa
bellezza. La rondine volò giù dal nido con Pollicina, e la depose su una di
quelle grandi foglie. Ma quale non fu la sua sorpresa! Nel mezzo del fiore, bianco
e trasparente che pareva di cristallo, stava seduto un omettino piccino
piccino. Aveva sul capo la più bella coroncina d’oro, e sulle spalle due alucce
una più lucente dell’altra. Tra tutto, era poco più alto di Pollicina. Era il
Genio del fiore, e in ogni fiore ce n’era uno - un omino o una donnina grandi
così; ma quello era il Re, che comandava a tutti gli altri.
"Ah!
com’è bello!" - sussurrò Pollicina alla rondinella.
Il
piccolo Principe ebbe un grande spavento alla vista della rondine, perch’era un
uccello addirittura gigantesco a paragone di lui, così piccolino. Ma quando
vide Pollicina, fu tutto contento: era la più bella ragazzina, che avesse mai
veduta. Perciò si tolse la corona d’oro e la pose sul capo di lei; poi le
domandò che nome avesse e se volesse essere sua moglie, che sarebbe divenuta
Regina di tutti i fiori. Ora, questo era tutt’altra specie di pretendente, dal
figlio del rospo e dal talpone con la pelliccia vellutata. Non c’è da
meravigliarsi, dunque, che al bel Principe Pollicina dicesse di sì. E fuori da
ogni fiore vennero un cavaliere e una damina, così bellini, che era un incanto
starli a guardare; e ciascuno portò a Pollicina il suo regalo di nozze; ma il
regalo più gradito fu un bel paio d’ali, che avevano appartenuto ad una grande
mosca bianca. Queste furono attaccate alle spalle di Pollicina, e allora ella
potè volare da fiore a fiore. E fecero grandi feste, e pregarono la rondinella
di cantare, dall’alto del suo nido, la canzone di nozze. La rondinella ci mise
tutto l’impegno e cantò del suo meglio; ma in fondo al cuore era triste, perchè
voleva tanto bene a Pollicina, tanto bene, e avrebbe voluto tenerla sempre con
sè.
"Non
devi più chiamarti Pollicina," - le disse il Re: "È un nome troppo
brutto e tu sei troppo bella: da ora in poi, ti chiameremo Maia."
"Addio,
addio!" - disse la rondinella; e dai paesi caldi, volò via di nuovo, via
di lì, via di lì, verso il pallido cielo di Danimarca. Ritrovò il suo piccolo
nido, sopra la finestra dell’uomo che sapeva raccontare le novelle, ed a lui
cantò tutto quanto vide lì, videvidevidevit; e così siamo venuti a risaperlo
anche noi.
prima edizione 1835
Buona giornata a tutti :-)
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