martedì 30 marzo 2021

Un asino nella notte - suor Ch. Augusta Lainati, clarissa


Un asino nella notte

L’asino camminava nella notte. Camminava e pensava a quella madre che portava sul dorso, tutta ravvolta nel mantello oscurato dall’ombra.
Un passo dietro l’altro, attento a che il suo andare fosse quieto e sempre uguale, per non destare il bimbo che dormiva. Un passo dietro l’altro, misurati dal battito del cuore: finché i battiti divennero più frequenti dei passi e il cuore, in petto, parve scoppiare.
Allora smise di fissare il cielo e la notte che si stendeva davanti a perdita d’occhio e, piegato il capo, cominciò a guardare a terra, sul sentiero appena segnato, ora per evitare un sasso troppo acuto, ora per posare lo zoccolo sui ciuffi d’erba bianchi di brina.
Cominciava a sentire il peso del carico; le gambe si stendevano nel passo ogni volta più faticosamente, finché l’andatura divenne secca, legnosa, e ad ogni piegare di ginocchi gli sembrava di udire come un ramo secco spezzarsi. Si ricordò della catasta di legna ammucchiata nella sua stalla tiepida, dell’alone di luce fumosa intorno alla lucerna pendente sopra la greppia, e l’immagine divenne tanto seducente che gli parve di sentire su per le narici l’odore penetrante di una manciata di fieno fresco.
Si volse, allora, con occhi imploranti verso l’uomo che gli camminava a fianco. Era giovane, ma la strada lo aveva curvato sopra il bastone, e il vento freddo della notte invernale gli incollava il mantello contro un fianco.
Il ciuco non riuscì a vedergli bene il volto, ma vide che l’oscurità, interrotta solo dalla luce delle stelle, incavava le occhiaie dell’uomo e riduceva ad una oscura macchia ansante il collo vigoroso, e il petto, che ad ogni passo si alzava e si abbassava.
“Sta peggio di me” pensò l’asino: e riprese a camminare. Camminò per un’ora con la testa bassa, con l’odore di fieno che sempre gli solleticava le narici con l’aumentare della stanchezza: finché il desiderio di cibo scomparve e rimase solo un’acuta brama di paglia tiepida su cui stendersi, della paglia che aveva lasciato a Betlemme quando l’avevano destato nella notte appena cominciata. Fu proprio il tepore associato al ricordo di Betlemme, di Betlemme con la sua piccola tiepida stalla, che lo aiutò a proseguire ancora sul terreno accidentato. Via, via e via.
Dopo qualche ora, ricominciò a sentire che non ne poteva più.
Nessun ricordo veniva ad addolcire la sua andatura e ad ogni passo migliaia di fitte gli trapassavano il corpo.
Decise di fermarsi, di sdraiarsi sul terreno ad aspettare il sonno, la morte.
Si guardò attorno, voltò il capo per trovare un riparo dal vento; e fu come se una mano gelida gli si fosse posata sul cuore: la donna sulla sua groppa era tutta un tremito per il freddo e il suo alito gelava nell’aria appena uscito dalle labbra dischiuse.
“Sta peggio di me” pensò ancora il somaro.
Continuò a camminare e un’altra ora passò, un’ora di stanchezza infinita, di contrasti col vento, di paura per quella dama, per quel Bambino, per quella figura scolpita dall’ombra che gli camminava al fianco e sulla cui andatura cercava faticosamente di regolare il passo.
Non ne poteva veramente più. Il terreno sassoso aveva a poco a poco ceduto ad un molle strato di sabbia; prima poche manciate insinuatesi tra le zolle indurite dal freddo e i sassi denudati dal vento, poi un tappeto soffice su cui era stato agevole camminare, e infine uno strato alto, dove gli zoccoli sprofondavano e si appesantivano e non venivano più fuori.
Ansimava; il sudore scendeva copioso giù per la fronte, nonostante il freddo, e si raccoglieva in due rivoletti lungo naso. Non sapeva che cosa fare, se lasciarsi cadere sfinito lì, sotto la volta del cielo, o se continuare impazzito di dolore e di freddo, senza avere più nozione, né di tempo, né di strada, finché la morte lo cogliesse e gli irrigidisse il passo nell’ultimo sforzo.
Fra le due prospettive, la prima gli sembrava infinitamente più desiderabile: doveva essere pur dolce lasciarsi cadere sulla sabbia ad aspettare la morte come liberazione dal male, riempire l’attesa con il ricordo di pigre giornate di sole, di terra smossa e odorosa, di mosche fastidiose che era divertente scacchiare con subito fremere delle membra. Anche il ricordo della pesante macina gli avrebbe fatto piacere, purché potesse distendersi ad aspettare la morte.
Aveva deciso. Ma, prima di lasciarsi cadere raccolse le forze per un ultimo raglio, l’addio alla vita. Al deserto, alla volta celeste: pensò che tra poco le stelle sarebbero impallidite nei suoi occhi spenti. Usò quanta forza gli rimaneva, e il raglio si alzò acuto, più sonoro nel silenzio del deserto.
E fu allora, mentre le ginocchia già si piegavano, mentre già assaporava la dolcezza di quella sabbia, pur fredda, che udì il pianto cheto del Bambino, del Bambino che non aveva pianto per il disagio dell’andare, non per il vento che si insinuava fin sotto le fasce, ma piangeva per il raglio dell’asino che non voleva più soffrire.
Fu così, per quel pianto infantile, che il ciuco scelse di continuare.
E andò, appesantito dalla sabbia, sferzato dal vento, sotto la volta concava e scura del cielo, finché le stelle impallidirono: e credette di sognare quando, nella luce ancora incerta, si profilò la sagoma di un villaggio straniero.
Gli diedero un giaciglio di paglia fresca, colmarono la greppia di fieno odoroso e l’acqua che versarono nell’abbeveratoio della stalla rispecchiava, insieme alle travi rozze del soffitto, una lampada lucente.
Ma non riuscì né a bere né a mangiare, per lungo tempo; rimase disteso sulla paglia senza neppure goderne il contatto, né vide l’immagine increspata della lampada nell’acqua dell’abbeveratoio. Ma quando, risvegliatosi dal torpore di morte avvertì il profumo penetrante del fascio di fieno nella mangiatoia e cercò di alzarsi, facendo forza sulle zampe anteriori, vide – e lo vide lui solo – l’Angelo che aveva invitato alla fuga Giuseppe.
Aspettava il suo risveglio, e lo aspettava lieto, come a ringraziarlo per quanto aveva fatto.
Il ciuco si alzò del tutto, gli si avvicinò tanto da essere nella sua stessa luce, coronato dalla sua stessa aureola: allora soltanto, quando vide che l’Angelo non si ritraeva, che non rifiutava di fasciarlo del suo stesso fulgore, raccolse tutto il coraggio, tutta la forza che ancora gli restava nelle membra e, chinata la testa, chinatala fino a terra, ebbe l’ardire di chiedere una ricompensa.
Chiese, piano: “Fa’ che sia io a riportarli indietro.”

suor Ch. Augusta Lainati, clarissa


Buona giornata a tutti. :-)

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sabato 27 marzo 2021

I piedi sporchi


I piedi la parte più bassa del corpo
due piedi per procedere in avanti
male si cammina, con un solo piede.
Per procedere ogni giorno.
Fare passi nuovi.
Possiamo camminare bene. E verso il bene.
Vera metafora della nostra vita.
Dunque oggi Signore, mi fermo anche io.
Ai piedi. Ai Tuoi piedi.
Oggi ti chiedo perdono
Per le cose fatte coi i piedi.
Per i progetti grandiosi.
Per i tentativi di farmi grande.
Invece di servire e lavare.
I piedi sporchi, i peccati degli altri.
Lava i miei piedi sporchi: e il cuore deluso.
Amen.

buona giornata a tutti. :-)



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lunedì 22 marzo 2021

Preghiera a Maria Salute degli Infermi


Rimani, Maria,
accanto a tutti gli ammalati del mondo,
di coloro che in questo momento,
hanno perso conoscenza e stanno per morire;
di coloro che stanno iniziando una lunga agonia,
di coloro che hanno perso ogni speranza di guarigione;
di coloro che gridano e piangono per la sofferenza;
di coloro che non possono curarsi perché poveri;
di quelli che vorrebbero camminare
e devono restare immobili;
di quelli che vorrebbero riposare
e la miseria costringe a lavorare ancora;
di quelli che sono tormentati dal pensiero
di una famiglia in miseria;
di quanti devono rinunciare ai loro progetti;
di quanti soprattutto
non credono in una vita migliore;
di quanti si ribellano e bestemmiano Dio;
di quanti non sanno o non ricordano
che il Cristo ha sofferto come loro.
 
(trovata nella chiesa di La Roche-Pozay)

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sabato 20 marzo 2021

Trenta denari (leggenda cristiana)


tratto da libro: Leggende Cristiane Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini a cura di Roberta Bellinzaghi 2004 - Edizioni Piemme S.p.A


Buona giornata a tutti. :-)

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mercoledì 17 marzo 2021

La predica dei morti


Arroccata sulla cima del monte Pirchiriano, l’abbazia di San Michele della Chiusa nella Val di Susa a Torino è un maestoso e antichissimo complesso religioso dedicato al culto dell’arcangelo Michele, che ha rappresentato una tappa importante nella rete di pellegrinaggi che univa i centri di culto michaelici dall’Irlanda a Gerusalemme, passando da Mont Saint-Michel in Normandia e Monte Sant’Angelo nel Gargano.
La decorazione del pilastro di centro del Coro Vecchio presenta nella parte superiore la deposizione di Gesù e nella parte inferiore la scena nota come “predica della morte” o “predica dei morti”, una variante dell’iconografia dell’incontro tra vivi e morti che ha analogie sia con l’incontro dei tre vivi e dei tre morti che con il tema della Danse macabre.
Nella scena, infatti, due scheletri, uno in piedi e l’altro disteso nel sepolcro e con un serpente che gli avvolge una gamba, parlano ad un gruppo di fedeli (un papa, un re, una regina, un cardinale, un vescovo, nobili e poveri, ecclesiastici e laici) attraverso due cartigli, uno in latino, che invita alla pietà per i defunti e recita: «Miseremini mei miseremini mei saltem · vos amici mei quia manus Domini tetigit me» (Pietà di me, pietà di me almeno voi amici miei, perché la mano del Signore mi ha toccato) e uno in francese non del tutto corretto che esorta i viventi a pregare per i trapassati e a ricordare il comune destino mortale: «O vous qui pour ici passe prie Dieu pour les trapasse, car leur donne comme vos avoint ete et leur comme nous sare» (‘O voi che passate di qua, pregate Dio di perdonare i trapassati come voi siete stati perdonati e come noi saremo perdonati’; cfr. Piccat 2011, p. 166).


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lunedì 15 marzo 2021

Noi e il tempo che fugge - Seneca


Noi e il tempo che fugge - Seneca

 

Il tempo ci viene tolto o sottratto, quasi a nostra insaputa, oppure ci sfugge non si sa come.

E la cosa più indecorosa è perderlo per trascurata leggerezza.

Prova a pensarci: gran parte della vita ci scappa via mentre agiamo in modo sbagliato, la maggior parte mentre stiamo senza far niente, e l'intera esistenza trascorre in occupazioni inutili e che non ci riguardano veramente. 

Trovami, se sei capace, uno che dia al tempo il giusto valore, che capisca quanto può essere importante una giornata, che si renda conto che noi moriamo un po' ogni giorno! 

Perché questo è il punto: noi pensiamo alla morte come a qualcosa che sta davanti a noi, mentre in gran parte è già alle nostre spalle: tutta l'esistenza trascorsa è già in suo potere. 

Voi vivete come se doveste vivere sempre, non pensate mai alla vostra fragilità, non volete considerare quanto del vostro tempo è già trascorso; buttate via il tempo come se lo attingeste da una fonte inesauribile. 

Preso nel vortice degli affari e degli impegni ciascuno consuma la propria vita, sempre in ansia per quello che accadrà, e annoiato di ciò che ha. 

Chi invece dedica ogni attimo del suo tempo alla propria crescita, chi dispone ogni giornata come se fosse la vita intera, non aspetta con speranza il domani né lo teme. 

Nessuno ti restituirà i tuoi anni, nessuno ti restituirà un'altra volta a te stesso; il tempo andrà per la via su cui si è incamminato, e non tornerà indietro, nè arresterà il suo percorso; non farà rumore, non ti avviserà della sua velocità: scivolerà via silenzioso. 

Cerchiamo dunque che ogni momento ci appartenga: ma non sarà possibile, se, prima, non cominceremo noi ad appartenere a noi stessi.

 - Seneca - 


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giovedì 11 marzo 2021

Alla Fine dei Tempi autore don Bruno Ferrero


Alla fine dei tempi, miliardi di persone furono portate su di una grande pianura davanti al trono di Dio. Molti indietreggiarono davanti a quel bagliore. Ma alcuni in prima fila parlarono in modo concitato. Non con timore reverenziale, ma con fare provocatorio.

“Può Dio giudicarci? Ma cosa ne sa lui della sofferenza?”, sbottò una giovane donna. Si tirò su una manica per mostrare il numero tatuato di un campo di concentramento nazista. “Abbiamo subìto il terrore, le bastonature, la tortura e la morte!”.

In un altro gruppo un giovane nero fece vedere il collo. “E che mi dici di questo?”, domandò mostrando i segni di una fune. “Linciato. Per nessun altro crimine se non per quello di essere un nero”.

In un altro schieramento c’era una studentessa in stato di gravidanza con gli occhi consumati. “Perché dovrei soffrire?”, mormorò. “Non fu colpa mia”.

Più in là  nella pianura c’erano centinaia di questi gruppi. Ciascuno di essi aveva dei rimproveri da fare a Dio per il male e la sofferenza che Egli aveva permesso in questo mondo.

Come era fortunato Dio a vivere in un luogo dove tutto era dolcezza e splendore, dove non c’era pianto né dolore, fame o odio. Che ne sapeva Dio di tutto ciò che l’uomo aveva dovuto sopportare in questo mondo? Dio conduce una vita molto comoda, dicevano.

Ciascun gruppo mandò avanti il proprio rappresentante, scelto per aver sofferto in misura maggiore. Un ebreo, un nero, una vittima di Hiroshima, un artritico orribilmente deformato, un bimbo cerebroleso. Si radunarono al centro della pianura per consultarsi tra loro. Alla fine erano pronti a presentare il loro caso. Era una mossa intelligente.

Prima di poter essere in grado di giudicarli, Dio avrebbe dovuto sopportare tutto quello che essi avevano sopportato. Dio doveva essere condannato a vivere sulla terra.

“Fatelo nascere ebreo. Fate che la legittimità  della sua nascita venga posta in dubbio. Dategli un lavoro tanto difficile che, quando lo intraprenderà , persino la sua famiglia pensi che debba essere impazzito. Fate che venga tradito dai suoi amici più intimi. Fate che debba affrontare accuse, che venga giudicato da una giuria fasulla e che venga condannato da un giudice codardo. Fate che sia torturato. Infine, fategli capire che cosa significa sentirsi terribilmente soli. Poi fatelo morire. Fatelo morire in un modo che non possa esserci dubbio sulla sua morte. Fate che ci siano dei testimoni a verifica di ciò”.

Mentre ogni singolo rappresentante annunciava la sua parte di discorso, mormorii di approvazione si levavano dalla moltitudine delle persone riunite.

Quando l’ultimo ebbe finito ci fu un lungo silenzio. Nessuno osò dire una sola parola. Perché improvvisamente tutti si resero conto che Dio aveva già  rispettato tutte le condizioni.

“E il Verbo si fece carne” (Giovanni 1,14).

- don Bruno Ferrero - 
dal : "Libro Alla Fine dei Tempi",  editore Elledici

lunedì 8 marzo 2021

La raccoglitrice di vetri sulla spiaggia- Padre Anthony De Mello


Una famiglia di cinque persone si stava godendo una giornata sulla spiaggia. 
I bambini facevano il bagno nell'oceano e costruivano castelli di sabbia, quando comparve in lontananza una vecchina. 
I capelli grigi le volavano con il vento e gli abiti erano sporchi e stracciati. Mormorava qualcosa fra sé e sé e intanto raccoglieva oggetti nella sabbia e li metteva in un sacco. 
I genitori chiamarono i bambini vicino a sé e raccomandarono loro di stare lontani dalla vecchietta. 
Quando passò accanto a loro, curvandosi di tanto in tanto per raccogliere roba, ella sorrise alla famiglia. Ma essi non ricambiarono il suo saluto. 
Molte settimane dopo vennero a sapere che la vecchina da sempre si era assunta il compito di raccogliere pezzetti di vetro sulla spiaggia per evitare ai bambini di ferirsi i piedi.

- Padre Anthony De Mello -

Buona giornata a tutti. :-)


venerdì 5 marzo 2021

Caro Marzo di Emily Dickinson


Caro Marzo – Entra –
Come sono felice –
Ti aspettavo da tanto –
Posa il Cappello –
Devi aver camminato –
Come sei Affannato –
Caro Marzo, come stai tu, e gli Altri –
Hai lasciato bene la Natura –
Oh Marzo, Vieni di sopra con me –
Ho così tanto da raccontare –

Ho avuto la tua Lettera, e gli Uccelli –
Gli Aceri non sapevano che tu stessi arrivando –
L'ho annunciato – come sono diventati Rossi –
Però Marzo, perdonami –
Tutte quelle Colline che mi lasciasti da Colorare –
Non c'era Porpora appropriata –
L'hai portata tutta con te –

Chi bussa? Ecco Aprile –
Chiudi la Porta –
Non voglio essere incalzata –
È stato via un Anno per venire
Ora che sono occupata –
Ma le inezie sembrano così banali
Non appena arrivi tu

Che il Biasimo è caro come la Lode
E la Lode effimera come il Biasimo

- Emily Dickinson - 



lunedì 1 marzo 2021

La rana e il bue


La rana e il bue è una favola di Fedro corta ma piena di significato. 
La morale della Rana e il Bue insegna che non bisogna cercare di essere ciò che non siamo.
Non dobbiamo cercare di imitare chi è diverso da noi, solo perché invidiamo il suo aspetto.

Buona giornata a tutti. :-)


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