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mercoledì 17 marzo 2021

La predica dei morti


Arroccata sulla cima del monte Pirchiriano, l’abbazia di San Michele della Chiusa nella Val di Susa a Torino è un maestoso e antichissimo complesso religioso dedicato al culto dell’arcangelo Michele, che ha rappresentato una tappa importante nella rete di pellegrinaggi che univa i centri di culto michaelici dall’Irlanda a Gerusalemme, passando da Mont Saint-Michel in Normandia e Monte Sant’Angelo nel Gargano.
La decorazione del pilastro di centro del Coro Vecchio presenta nella parte superiore la deposizione di Gesù e nella parte inferiore la scena nota come “predica della morte” o “predica dei morti”, una variante dell’iconografia dell’incontro tra vivi e morti che ha analogie sia con l’incontro dei tre vivi e dei tre morti che con il tema della Danse macabre.
Nella scena, infatti, due scheletri, uno in piedi e l’altro disteso nel sepolcro e con un serpente che gli avvolge una gamba, parlano ad un gruppo di fedeli (un papa, un re, una regina, un cardinale, un vescovo, nobili e poveri, ecclesiastici e laici) attraverso due cartigli, uno in latino, che invita alla pietà per i defunti e recita: «Miseremini mei miseremini mei saltem · vos amici mei quia manus Domini tetigit me» (Pietà di me, pietà di me almeno voi amici miei, perché la mano del Signore mi ha toccato) e uno in francese non del tutto corretto che esorta i viventi a pregare per i trapassati e a ricordare il comune destino mortale: «O vous qui pour ici passe prie Dieu pour les trapasse, car leur donne comme vos avoint ete et leur comme nous sare» (‘O voi che passate di qua, pregate Dio di perdonare i trapassati come voi siete stati perdonati e come noi saremo perdonati’; cfr. Piccat 2011, p. 166).


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lunedì 15 marzo 2021

Noi e il tempo che fugge - Seneca


Noi e il tempo che fugge - Seneca

 

Il tempo ci viene tolto o sottratto, quasi a nostra insaputa, oppure ci sfugge non si sa come.

E la cosa più indecorosa è perderlo per trascurata leggerezza.

Prova a pensarci: gran parte della vita ci scappa via mentre agiamo in modo sbagliato, la maggior parte mentre stiamo senza far niente, e l'intera esistenza trascorre in occupazioni inutili e che non ci riguardano veramente. 

Trovami, se sei capace, uno che dia al tempo il giusto valore, che capisca quanto può essere importante una giornata, che si renda conto che noi moriamo un po' ogni giorno! 

Perché questo è il punto: noi pensiamo alla morte come a qualcosa che sta davanti a noi, mentre in gran parte è già alle nostre spalle: tutta l'esistenza trascorsa è già in suo potere. 

Voi vivete come se doveste vivere sempre, non pensate mai alla vostra fragilità, non volete considerare quanto del vostro tempo è già trascorso; buttate via il tempo come se lo attingeste da una fonte inesauribile. 

Preso nel vortice degli affari e degli impegni ciascuno consuma la propria vita, sempre in ansia per quello che accadrà, e annoiato di ciò che ha. 

Chi invece dedica ogni attimo del suo tempo alla propria crescita, chi dispone ogni giornata come se fosse la vita intera, non aspetta con speranza il domani né lo teme. 

Nessuno ti restituirà i tuoi anni, nessuno ti restituirà un'altra volta a te stesso; il tempo andrà per la via su cui si è incamminato, e non tornerà indietro, nè arresterà il suo percorso; non farà rumore, non ti avviserà della sua velocità: scivolerà via silenzioso. 

Cerchiamo dunque che ogni momento ci appartenga: ma non sarà possibile, se, prima, non cominceremo noi ad appartenere a noi stessi.

 - Seneca - 


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sabato 2 novembre 2019

Se mi ami non piangere - Padre Giacomo Perico



Se mi ami non piangere!
Se tu conoscessi il mistero immenso del cielo
dove ora vivo; se tu potessi vedere e sentire
quello che io vedo e sento
in questi orizzonti senza fine
e in questa luce che tutto investe e penetra,
tu non piangeresti se mi ami.
Qui si é ormai assorbiti
dall'incanto di Dio e dai riflessi
della sua sconfinata bellezza.
Le cose di un tempo,
quanto piccole e fuggevoli, al confronto!
Mi é rimasto
un profondo affetto per te;
una tenerezza che non ho mai conosciuto.
Ora l'amore che mi stringe
profondamente a te,
é gioia pura e senza tramonto.
Mentre io vivo
nella serena ed esaltante attesa,
tu pensami così!
Nelle tue battaglie,
nei tuoi momenti
di sconforto e di stanchezza,
pensa a questa meravigliosa casa,
dove non esiste la morte,
dove ci disseteremo insieme
nel trasporto più intenso,
alla fonte inesauribile
dell'amore e della felicità.
Non piangere più
se veramente mi ami!

Preghiera/meditazione di Padre Giacomo Perico
Fonte: "Resta con noi Signore!" San Paolo Edizioni, 2001



Buona giornata a tutti :-)



sabato 19 ottobre 2019

Il segreto della vita - Miguel de Unamuno

Abbiamo tutti idee e sentimenti 
potenziali che passeranno dalla potenza
all'azione solo se giunge chi ce li risvegli.
Ognuno di noi porta dentro di sé un Lazzaro
che ha solo bisogno di un Cristo che lo resusciti.
Disgraziati i poveri Lazzari che terminano la loro
carriera di amori e di dolori apparenti,

senza aver incontrato il Cristo che dica loro: 
alzati!
  - Miguel de Unamuno -




Buona giornata a tutti. :-)

sabato 10 novembre 2018

"Cranky" uomo vecchio

Cosa vedi infermiera ? ..Cosa vedete ?
Che cosa stai pensando mentre mi guardi ?
"Un povero vecchio"....non molto saggio..
con lo sguardo incerto ed occhi lontani..
Che schiva il cibo.. e non da risposte..
..e che quando provi a dirgli a voce alta : .."almeno assaggia" !
sembra nulla gli importi di quello che fai per lui..
Uno che perde sempre il calzino o la scarpa..
..che ti resiste, non permettendoti di occuparti di lui..
per fargli il bagno, per alimentarlo... e la giornata diviene lunga ..

Ma cosa stai pensando?.. E cosa vedi ??
.. Apri gli occhi infermiera !!.. perchè tu non sembri davvero interessata a me..

Ora ti dirò chi sono.. mentre me ne stò ancora seduto quì a ricevere le tue attenzioni... lasciandomi imboccare per compiacerti.

"Io sono un piccolo bambino di dieci anni con un padre ed una madre,
Fratelli e sorelle che si voglion bene ..
Sono un ragazzo di sedici anni con le ali ai piedi..
che sogna presto di incontrare l'amore ..
A vent'anni sono già sposo... il mio cuore batte forte ..
giurando di mantener fede alle sue promesse ..
A venticinque....ho già un figlio mio..
che ha bisogno di me e di un tetto sicuro, di una casa felice in cui crescere.
Sono già un uomo di trent'anni e mio figlio è cresciuto velocemente,
siamo molto legati uno all'altro da un sentimento che dovrebbe durare nel tempo.
Ho poco più di quarant'anni, mio figlio ora è un adulto e se ne và,
ma la mia donna mi stà accanto.. per consolarmi affinchè io non pianga.
A poco più di cinquant'anni... i bambini mi giocano attorno alle ginocchia ,
Ancora una volta, abbiamo con noi dei bambini io e la mia amata..

Ma arrivano presto giorni bui.... mia moglie muore..
..guardando al futuro rabbrividisco con terrore..
Abbiamo allevato i nostri figli e poi loro ne hanno allevati dei propri.
..e così penso agli anni vissuti... all'amore che ho conosciuto.
Ora sono un uomo vecchio... e la natura è crudele.
Si tratta di affrontare la vecchiaia... con lo sguardo di un pazzo.
Il corpo lentamente si sbriciola... grazia e vigore mi abbandonano.
Ora c'è una pietra... dove una volta ospitavo un cuore.
Ma all'interno di questa vecchia carcassa un giovane uomo vive ancora
e così di nuovo il mio cuore martoriato si gonfia..
Mi ricordo le gioie... ricordo il dolore.
Io vorrei amare, amare e vivere ancora ..
ma gli anni che restano son pochissimi.. tutto è scivolato via .. veloce.
E devo accettare il fatto che niente può durare.."

Quindi aprite gli occhi gente.. apriteli e guardate..
"Non un uomo vecchio".. avvicinatevi meglio e... vedete ME !!
 





Buona giornata a tutti. :)



venerdì 2 novembre 2018

E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria... - Tiziano Terzani

Una strada c’è nella vita. La cosa buffa è che te ne accorgi solo quando è finita. Ti volti indietro e dici: “oh’, guarda, c’è un filo”. Quando vivi, non lo vedi il filo, eppure c’è.

Perchè tutte le decisioni che prendi, tutte le scelte che fai sono determinate, si crede, dal libero arbitro, ma anche questa è una balla. Sono determinate da qualcosa dentro di te, che è innanzitutto il tuo istinto, e poi da qualcosa che gli indiani chiamano il karma accumulato fino ad allora.

Vivo ora, qui, con la sensazione che l’universo è straordinario, che niente ci succede per caso e che la vita è una continua scoperta, e io sono particolarmente fortunato perchè, ora più che mai, ogni giorno è davvero un altro giro di giostra. Solo se riusciremo a vedere l’universo come un tutt’uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo.

E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio.

La vera conoscenza non viene dai libri, neppure da quelli sacri, ma dall’esperienza. Il miglior modo per capire la realtà è attraverso i sentimenti, l’intuizione, non attraverso l’intelletto. 
L’intelletto è limitato. L’ultimo pezzo del cammino, quella scaletta che conduce sul tetto da cui si vede il mondo o sul quale ci si può distendere a diventare una nuvola, quell’ultimo pezzo va fatto a piedi, da soli.

Quando sei a un bivio e trovi una strada che va in su e una che va in giù, piglia quella che va in su. E' più facile andare in discesa, ma alla fine ti trovi in un buco. A salire c’è speranza. E' difficile, è un altro modo di vedere le cose, è una sfida, ti tiene all’erta.
Il coraggio è il superamento della paura.
Finirai per trovarla la via…se prima hai il coraggio di perderti.

(Tiziano Terzani)
Fonte: Tiziano Terzani da “Un altro giro di giostra”



La storia di questo viaggio non è la riprova che non c'è medicina contro certi malanni e che tutto quel che ho fatto a cercarla non è servito a nulla. 
Al contrario: tutto, compreso il malanno stesso, è servito a tantissimo. 
E' così che sono stato spinto a rivedere le mie priorità, a riflettere, a cambiare prospettiva e soprattutto a cambiare vita. 
E questo è ciò che posso consigliare ad altri: cambiare vita per curarsi, cambiare vita per cambiare se stessi. 
Per il resto ognuno deve fare la strada da solo. 
Non ci sono scorciatoie che posso indicare. 
I libri sacri, i maestri, i guru, le religioni servono, ma come servono gli ascensori che ci portano in su facendoci risparmiare le scale. 
L'ultimo pezzo del cammino, quella scaletta che conduce al tetto dal quale si vede il mondo sul quale ci si può distendere a diventare una nuvola, quell'ultimo pezzo va fatto a piedi, da soli.
Io provo.


- Tiziano Terzani -




Che gioia, figlio mio. Ho sessantasei anni e questo grande viaggio della mia vita è arrivato alla fine. Sono al capolinea. Ma ci sono senza alcuna tristezza, anzi, quasi con un po' di divertimento. Ormai mi incuriosisce di più morire. Mi rincresce solo che non potrò scriverne.

- Tiziano Terzani  -


























a mia mamma, a papà.

giovedì 4 ottobre 2018

Sabato sera del 3 ottobre 1226 : Piissimo Transito del Serafico Padre san Francesco


«… Avvicinandosi il momento del suo transito, fece chiamare intorno a sé tutti i frati del luogo e, consolandoli della sua morte con espressioni carezzevoli li esortò con paterno affetto all’amore di Dio. 
Si diffuse a parlare sulla necessità di conservare la pazienza, la povertà, la fedeltà alla santa Chiesa Romana, ma ponendo sopra tutte le altre norme il santo Vangelo. 
Mentre tutti i frati stavano intorno a lui, stese sopra di loro le mani, intrecciando le braccia in forma di croce (giacché aveva sempre amato questo segno) e benedisse tutti i frati, presenti e assenti, nella potenza e nel nome del Crocifisso. 
Inoltre aggiunse ancora: “State saldi, o figli tutti, nel timore del Signore e perseverate sempre in esso! E, poiché sta per venire la tentazione e la tribolazione, beati coloro che persevereranno nel cammino iniziato! Quanto a me, mi affretto verso Dio e vi affido tutti alla Sua grazia!”. Terminata questa dolce ammonizione, l’uomo a Dio carissimo comandò che gli portassero il libro dei Vangeli e chiese che gli leggessero il passo di Giovanni, che incomincia: “Prima della festa di Pasqua...” (Gv 13, 1). 
Egli, poi, come poté, proruppe nell’esclamazione del salmo: “Con la mia voce al Signore io grido, con la mia voce il Signore io supplico” e lo recitò fin al versetto finale: “Mi attendono i giusti, per il momento in cui mi darai la ricompensa” (cfr. Sal 141, 1-8). Quando, infine, si furono compiuti in lui tutti i misteri, quell’anima santissima, sciolta dal corpo, fu sommersa nell’abisso della chiarità divina e l’uomo beato s’addormentò nel Signore. (cfr. At 7, 60)» 

- San Bonaventura, FF 1241 - 1242 - 1243 -


Buona giornata a tutti. :)




domenica 29 luglio 2018

Scacco alla morte - don Nardo Masetti

Un uomo molto ricco sta facendo il calcolo di tutti i suoi beni: può veramente felicitarsi con se stesso. Ha tribolato tutta la vita, ha lavorato come un dannato, ma ora potrà vivere sontuosamente per tutto il resto dei suoi giorni. Ode improvvisamente un tocco delicato alla porta: si tratterà, come al solito, del suo cameriere che viene per augurargli la buona notte. Dice un abituale "Avanti!". Non è il servitore ma un personaggio che davvero non si sarebbe aspettato né così presto né in quel momento: la morte. Terrorizzato la supplica di attendere un giorno… un'ora, affinché possa mettere a posto le sue cose. Da tanto tempo non ha più pensato a Dio; come si fa a comparirgli davanti all'improvviso in uno stato simile?! 
La morte non risponde, ma continua ad avanzare verso di lui, gli tocca una spalla e compie inesorabilmente il suo ufficio. Dal campanile scoccano le ventuno. 

In una soffitta di una vecchia casa un uomo sta armeggiando con alcuni attrezzi, che ripone in una borsa di logora stoffa. Quella sarà la sua notte. Ha stentato tutto una vita, ma questa volta, se il colpo riuscirà, potrà vivere da ricco e levarsi tutte le soddisfazioni. Con due colleghi ha studiato il piano alla perfezione; ancora poche ore e poi via, con passaporti falsi verso un altro mondo. Sente bussare leggermente alla porta: saranno i colleghi. No, è la morte. L'uomo, oltre che terrorizzato, si mostra anche stizzito e protesta: "Tante volte ti ho desiderata, stanco della mia vita grama e mai sei venuta; ora che sto per cominciare a godere, lasciami la possibilità di gustare un solo giorno della nuova vita… almeno un'ora… almeno qualche minuto per pensare a Dio". La morte non risponde, ma continua ad avanzare verso l'uomo, lo tocca sulla spalla e compie inesorabilmente il suo ufficio. Dalla torre civica scoccano le ventidue.

Nel suo studio il vecchio vescovo sta riordinando le sue cose prima del riposo. Sente bussare alla porta: è la morte. Si alza e le va rispettosamente incontro, come è solito fare con ogni persona che vada da lui in udienza. Le dice: "A dire il vero non ti aspettavo questa sera; comunque sii la benvenuta". 
La morte si meraviglia: questo uomo non ha paura, non supplica, non ha nulla da chiedere; con titubanza avanza verso di lui. Dalla torre della cattedrale scoccano le ventitré. 
La morte si ferma di scatto e, con un senso di smarrimento, controlla il suo orologio: sono veramente le ventitre. 
Confusa e incredula si scusa col vescovo: "Non mi è mai capitato di arrivare con un'ora di anticipo; tornerò fra un'ora, l'appuntamento è stabilito per la mezzanotte". Il vescovo la prega di fermarsi e, visto che ormai è lì, dichiara la sua disponibilità a partire in anticipo. La morte afferma che non può; ha ordini tassativi. Allora lui propone di trascorrere l'ora giocando una partita a scacchi, visto che non ha nulla da preparare per il viaggio eterno, avendo cercato di provvedervi, giorno dopo giorno, da moltissimo tempo. 
È una partita equilibrata, ma alla fine il vescovo, con una mossa pensata ed astuta, dà scacco matto la morte che, rassegnata sorride e allarga le braccia in segno di resa. Dalla torre della cattedrale scoccano le ventiquattro. 
I due personaggi si alzano e sotto braccio, come due buoni amici, escono dalla porta dello studio.

- don Nardo Masetti -


Buona giornata a tutti. :-)






sabato 12 maggio 2018

I sette piani - Dino Buzzati

Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c'era la famosa casa di cura. 
Aveva un po' di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi strada fra la stazione e l'ospedale, portandosi la sua valigetta. Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell'unica malattia. Ciò garantiva un'eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazione d'impianti.
Quando lo scorse da lontano - e lo riconobbe per averne già visto la fotografia in una circolare pubblicitaria - , Giuseppe Corte ebbe un'ottima impressione. 

Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d'albergo. Tutt'attorno era una cinta di alti alberi.
Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. 

I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di legno, i cuscini rivestiti di policrome stoffe. La vista spaziava su uno dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante.
Giuseppe Corte si mise subito a letto e, accesa la lampadina sopra il capezzale, cominciò a leggere un libro che aveva portato con sé... 

Poco dopo entrò un'infermiera per chiedergli se desiderasse qualcosa...
Giuseppe Corte non desiderava nulla ma si mise volentieri a discorrere con la giovane, chiedendo informazioni sulla casa di cura. Seppe così la strana caratteristica di quell'ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l'ultimo, era per le forme leggerissime. 
Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. 
Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. 

Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo, quelli per cui era inutile sperare.
Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un'atmosfera omogenea. D'altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto.
Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste. 
Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all'istituto un unico fondamentale indirizzo.
Quando l'infermiera fu uscita, Giuseppe Corte, sembrandogli che la febbre fosse scomparsa, raggiunse la finestra e guardò fuori, non per osservare il panorama della città, che pure era nuovo per lui, ma nella speranza di scorgere, attraverso le finestre, altri ammalati dei piani inferiori. 

La struttura dell'edificio, a grandi rientranze, permetteva tale genere di osservazione. Soprattutto Giuseppe Corte concentrò la sua attenzione sulle finestre del primo piano che sembravano lontanissime, e che si scorgevano solo di sbieco. Ma non poté vedere nulla di interessante. La maggioranza erano ermeticamente sprangate dalle grigie persiane scorrevoli.
Il Corte si accorse che a una finestra di fianco alla sua stava affacciato un uomo. I due si guardarono a lungo con crescente simpatia, ma non sapevano come rompere il silenzio. Finalmente Giuseppe Corte si fece coraggio e disse: "Anche lei sta qui da poco?"
"Oh no - fece l'altro - sono qui già da due mesi..." tacque qualche istante e poi, non sapendo come continuare la conversazione, aggiunse: "Guardavo giù mio fratello."
"Suo fratello?"
"Sì." spiegò lo sconosciuto. "Siamo entrati insieme, un caso veramente strano, ma lui è andato peggiorando, pensi che adesso è già al quarto."
"Al quarto che cosa?"
"Al quarto piano" spiegò l'individuo e pronunciò le due parole con una tale espressione di commiserazione e di orrore, che Giuseppe Corte restò quasi spaventato.
"Ma son così gravi al quarto piano?" domandò cautamente.
"Oh Dio" fece l'altro, scuotendo lentamente la testa "non sono ancora così disperati, ma comunque poco da stare allegri."
"Ma allora", chiese ancora il Corte, con una scherzosa disinvoltura come di chi accenna a cose tragiche che non lo riguardano, "allora, se al quarto sono già così gravi, al quinto chi mettono allora?"
"Oh, al primo sono proprio i moribondi. Laggiù i medici non hanno più niente da fare. C'è solo il prete che lavora. E naturalmente..."
"Ma ce n'è pochi al primo piano" interruppe Giuseppe Corte, come se gli premesse di avere una conferma "quasi tutte le stanze sono chiuse laggiù."
"Ce n'è pochi, adesso, ma stamattina ce n'erano parecchi" rispose lo sconosciuto con un sottile sorriso. "Dove le persiane sono abbassate lì qualcuno è morto da poco. Non vede, del resto, che negli altri piani tutte le imposte sono aperte? Ma mi scusi, aggiunse ritraendosi lentamente "mi pare che cominci a far freddo. Io ritorno in letto. Auguri, auguri..."
L'uomo scomparve dal davanzale e la finestra venne chiusa con energia; poi si vide accendersi dentro una luce. Giuseppe Corte se ne stette ancora immobile alla finestra fissando le persiane abbassate del primo piano. 

Le fissava con un'intensità morbosa, cercando di immaginare i funebri segreti di quel terribile primo piano dove gli ammalati venivano confinati a morire; e si sentiva sollevato di sapersene cosi lontano. Sulla città scendevano intanto le ombre della sera. 
Ad una ad una le mille finestre del sanatorio si illuminavano, da lontano si sarebbe potuto pensare a un palazzo in festa. Solo al primo piano, laggiù in fondo al precipizio, decine e decine di finestre rimanevano cieche e buie.
Il risultato della visita medica generale rasserenò Giuseppe Corte. 
Incline di solito a prevedere il peggio, egli si era già in cuor suo preparato a un verdetto severo, e non sarebbe rimasto sorpreso se il medico gli avesse dichiarato di doverlo assegnare al piano inferiore. La febbre infatti non accennava a scomparire, nonostante le condizioni generali si mantenessero buone. Invece il sanitario gli rivolse parole cordiali e incoraggianti. 

Un principio di male c'era - gli disse - ma leggerissimo; in due o tre settimane probabilmente tutto sarebbe passato.
"E allora resto al settimo piano?" aveva domandato ansiosamente Giuseppe Corte a questo punto.
"Ma naturalmente!" gli aveva risposto il medico battendogli amichevolmente una mano su una spalla. E dove pensava di dover andare? Al quarto forse? chiese ridendo, come per alludere alla ipotesi più assurda.
"Meglio così, meglio così!" fece il Corte. "Sa? Quando si è ammalati si immagina sempre il peggio".
Giuseppe Corte infatti rimase nella stanza che gli era stata assegnata originariamente. Imparò a conoscere alcuni dei suoi compagni di ospedale, nei rari pomeriggi in cui gli veniva concesso d'alzarsi. 

Seguì scrupolosamente la cura, mise tutto l'impegno a guarire rapidamente, ma ciononostante le sue condizioni pareva rimanessero stazionarie.
Erano passati circa dieci giorni, quando a Giuseppe Corte si presentò il capo-infermiere del settimo piano. Aveva da chiedere un favore in via puramente amichevole: il giorno dopo doveva entrare all'ospedale una signora con due bambini; due camere erano, libere, proprio di fianco alla sua, ma mancava la terza; non avrebbe consentito il signor Corte a trasferirsi in un'altra camera, altrettanto confortevole? 
Giuseppe Corte non fece naturalmente nessuna difficoltà; una camera o un'altra per lui erano lo stesso; gli sarebbe anzi toccata forse una nuova e più graziosa infermiera.
"La ringrazio di cuore", fece allora il capo-infermiere con un leggero inchino; da una persona come lei le confesso non mi stupisce un così gentile atto di cavalleria. Fra un'ora, se lei non ha nulla in contrario, procederemo al trasloco. Guardi che bisogna scendere al piano di sotto" aggiunse con voce attenuata come se si trattasse di un particolare assolutamente trascurabile. "Purtroppo in questo piano non ci sono altre camere libere. Ma è una sistemazione assolutamente provvisoria, " si affrettò a specificare vedendo che Corte, rialzatosi di colpo a sedere, stava per aprir bocca in atto di protesta, "una sistemazione assolutamente provvisoria. Appena resterà libera una stanza, e credo che sarà fra due o tre giorni, lei potrà tornare di sopra."
"Le confesso", disse Giuseppe Corte sorridendo, per dimostrare di non essere un bambino "le confesso che un trasloco di questo genere non mi piace affatto."
"Ma non ha alcun motivo medico questo trasloco; capisco benissimo quello che lei intende dire, si tratta unicamente di una cortesia a questa signora che preferisce non rimaner separata dai suoi bambini... Per carità", aggiunse ridendo apertamente "non le venga neppure in mente che ci siano altre ragioni".
"Sarà", disse Giuseppe Corte "ma mi sembra di cattivo augurio".
Corte così passò al sesto piano, e sebbene fosse convinto che questo trasloco non corrispondesse a un peggioramento del male, si sentiva a disagio al pensiero che tra lui e il mondo normale, della gente sana, già si frapponesse un netto ostacolo. 
Al settimo piano, porto d'arrivo, si era in un certo modo ancora in contatto con il consorzio degli uomini; esso si poteva anzi considerare quasi un prolungamento del mondo abituale. Ma al sesto già si entrava nel corpo autentico dell'ospedale; già la mentalità dei medici, delle infermiere e degli stessi ammalati era leggermente diversa. 
Già si ammetteva che a quel piano venivano accolti dei veri e propri ammalati, sia pure in forma non grave. Dai primi discorsi fatti con i vicini di stanza, con il personale e con i sanitari, Giuseppe Corte si accorse come in quel reparto, il settimo piano venisse considerato come uno scherzo, riservato ad ammalati dilettanti, affetti più che altro da fisime; solo dal sesto, per così dire, si cominciava davvero.
Comunque Giuseppe Corte capì che per tornare di sopra, al posto che gli competeva per le caratteristiche del suo male, avrebbe certamente incontrato qualche difficoltà; per tornare al settimo piano, egli doveva mettere in moto un complesso organismo, sia pure per un minuto sforzo; non c'era dubbio che se egli non avesse fiatato, nessuno avrebbe pensato a trasferirlo di nuovo al piano superiore dei "quasi-sani".
Giuseppe Corte si propose perciò di non transigere sui suoi diritti e di non cedere alle lusinghe dell'abitudine. 
Ai compagni di reparto teneva molto a specificare che trovarsi con loro, soltanto per pochi giorni, ch'era stato lui a voler scendere d'un piano per fare un piacere a una signora, e che appena fosse rimasta libera una stanza sarebbe tornato di sopra. 
Gli altri lo ascoltavano senza interesse e annuivano con scarsa convinzione.
II convincimento di Giuseppe Corte trovò piena conferma nel giudizio del nuovo medico. Anche questi ammetteva che Giuseppe Corte poteva benissimo essere assegnato al settimo piano; la sua forma era as-so-lu-ta-men-te leg-ge-ra e scandiva tale definizione per darle importanza - ma in fondo riteneva che al sesto piano Giuseppe Corte forse potesse essere meglio curato.
"Non cominciamo con queste storie", interveniva a questo punto il malato con decisione. "Lei mi ha detto che il settimo piano è il mio posto e voglio ritornarci".
"Nessuno ha detto il contrario". ribatteva il dottore "il mio era un puro e semplice consiglio non da dot-to-re, ma da au-ten-ti-co a-mi-co! 
La sua forma, le ripeto, è leggerissima, non sarebbe esagerato dire che lei non è nemmeno ammalato, ma secondo me si distingue da forme analoghe per una certa maggiore estensione. Mi spiego: l'intensità del male è minima, ma considerevole l'ampiezza; il processo distruttivo delle cellule" (era la prima volta che Giuseppe Corte sentiva là dentro quella sinistra espressione "il processo distruttivo delle cellule") è assolutamente agli inizi, forse non è neppure cominciato, ma tende, dico, solo tende, a colpire contemporaneamente vaste porzioni dell'organismo. 
Solo per questo, secondo me, lei può essere curato più efficacemente qui, al sesto, dove i metodi terapeutici sono più tipici ed intensi. Un giorno gli fu riferito che il direttore generale della casa di cura, dopo essersi lungamente consultato con i suoi collaboratori, aveva deciso un mutamento nella suddivisione dei malati. Il grado di ciascuno di essi - per così dire - veniva ribassato di un mezzo punto. Ammettendosi che in ogni piano gli ammalati fossero divisi, a seconda della loro gravità, in due categorie, (questa suddivisione veniva effettivamente fatta dai rispettivi medici, ma ad uso esclusivamente interno) l'inferiore di queste due metà veniva d'ufficio traslocata a un piano più basso. Ad esempio, la metà degli ammalati del sesto piano, quelli con forme leggermente più avanzate, dovevano passare al quinto; e i meno leggeri del settimo piano passare al sesto. 
La notizia fece piacere a Giuseppe Corte, perché in un così complesso quadro di traslochi, il suo ritorno al settimo piano sarebbe riuscito assai più facile.
Quando accennò a questa sua speranza con l'infermiera egli ebbe però un'amara sorpresa. Seppe cioè che egli sarebbe stato traslocato, ma non al settimo, bensì al piano di sotto. Per motivi che l'infermiera non sapeva spiegargli, egli era stato compreso nella metà più "grave" degli ospiti del sesto piano e doveva perciò scendere al quinto.
Passata la prima sorpresa, Giuseppe Corte andò in furore; gridò che lo truffavano, che non voleva sentir parlare di altri traslochi in basso, che se ne sarebbe tornato a casa, che i diritti erano diritti e che l'amministrazione dell'ospedale non poteva trascurare così sfacciatamente le diagnosi dei sanitari.
Mentre egli ancora gridava arrivò il medico per tranquillizzarlo. 
Consigliò al Corte di calmarsi se non avesse voluto veder salire la febbre, gli spiegò che era successo un malinteso, almeno parziale. Ammise ancora una volta che Giuseppe Corte sarebbe stato al suo giusto posto se lo avessero messo al settimo piano, ma aggiunse di avere sul suo caso un concetto leggermente diverso, se pure personalissimo. In fondo in fondo la sua malattia poteva, in un certo senso s'intende, essere anche considerata di sesto grado, data l'ampiezza delle manifestazioni morbose. Lui stesso però non riusciva a spiegarsi come il Corte fosse stato catalogato nella metà inferiore del sesto piano. Probabilmente il segretario della direzione, che proprio quella mattina gli aveva telefonato chiedendo l'esatta posizione clinica di Giuseppe Corte, si era sbagliato nel trascrivere. o meglio la direzione aveva di proposito leggermente "peggiorato" il suo giudizio, essendo egli ritenuto un medico esperto ma troppo indulgente. 
Il dottore infine consigliava il Corte a non inquietarsi, a subire senza proteste il trasferimento; quello che contava era la malattia, non il posto in cui veniva collocato un malato.
Per quanto si riferiva alla cura - aggiunse ancora il medico - Giuseppe Corte non avrebbe poi avuto da rammaricarsi; il medico del piano di sotto aveva certo più esperienza; era quasi dogmatico che l'abilità dei dottori andasse crescendo, almeno a giudizio della direzione, man mano che si scendeva. 
La camera era altrettanto comoda ed elegante. La vista ugualmente spaziosa: solo dal terzo piano in giù la visuale era tagliata dagli alberi di cinta.
Giuseppe Corte, in preda alla febbre serale, ascoltava ascoltava le meticolose giustificazioni con una progressiva stanchezza. Alla fine si accorse che gli mancavano la forza e soprattutto la voglia di reagire ulteriormente all'ingiusto trasloco. E senza altre proteste si lasciò portare al piano di sotto.
L'unica, benché povera, consolazione di Giuseppe Corte, una volta che si trovò al quinto piano, fu di sapere che per giudizio concorde di medici, di infermieri e ammalati, egli era in quel reparto il menu grave di tutti. 
Nell'ambito di quel piano insomma egli poteva considerarsi di gran lunga il più fortunato. Ma d'altra parte lo tormentava il pensiero che oramai ben due barriere si frapponevano fra lui e il mondo della gente normale.
Procedendo la primavera, l'aria intanto si faceva più tepida, ma Giuseppe Corte non amava più come nei primi giorni affacciarsi alla finestra; benché un simile timore fosse una pura sciocchezza, egli si sentiva rimescolare tutto da uno strano brivido alla vista delle finestre del primo piano, sempre nella maggioranza chiuse, che si erano fatte assai più vicine.
Il suo male sembrava stazionario. Dopo tre giorni di permanenza al quinto piano, si manifestò anzi sulla gamba destra una specie di eczema che non accennò a riassorbirsi nei giorni successivi. 
Era un'affezione - gli disse il medico - assolutamente indipendente dal male principale; un disturbo che poteva capitare alla persona più sana del mondo. Ci sarebbe voluta, per eliminarlo in pochi giorni, una intensa cura di raggi digamma.
"E non si possono avere qui i raggi digamma?", chiese Giuseppe Corte.
"Certamente" rispose compiaciuto il medico, "il nostro ospedale dispone di tutto. C'è un solo inconveniente....
"Che cosa?" fece il Corte con un vago presentimento.
"Inconveniente per modo di dire". si corresse il dottore, "volevo dire che l'installazione per i raggi si trova soltanto al quarto piano e io le sconsiglierei di fare tre volte al giorno un simile tragitto".
"E allora niente?"
"Allora sarebbe meglio che fino a che l'espulsione non sia passata lei avesse la compiacenza di scendere al quarto."
"Basta!" urlò allora esasperato Giuseppe Corte. Ne ho già abbastanza di scendere! Dovessi crepare, al quarto non ci vado!"
"Come lei crede" fece conciliante il medico per non irritarlo "come medico curante, badi che le proibisco di andar da basso tre volte al giorno".
Il brutto fu che l'eczema, invece di attenuarsi, andò lentamente ampliandosi. Giuseppe Corte non riusciva a trovare requie e continuava a rivoltarsi nel letto. Durò così, rabbioso, per tre giorni, fino a che dovette cedere. Spontaneamente pregò il medico di fargli praticare la cura dei raggi e di essere trasferito al piano inferiore.
Quaggiù il Corte notò, con inconfessato piacere, di rappresentare un'eccezione. Gli altri ammalati del reparto erano decisamente in condizioni molto serie e non potevano lasciare neppure per un minuto il letto. 

Egli invece poteva prendersi il lusso di raggiungere a piedi, dalla sua stanza, la sala dei raggi, fra i complimenti e la meraviglia delle stesse infermiere.
Al nuovo medico, egli precisò con insistenza la sua posizione specialissima. Un ammalato che in fondo aveva diritto al settimo piano veniva a trovarsi al quarto. Appena l'espulsione fosse passata, egli intendeva ritornare di sopra. Non avrebbe assolutamente ammesso alcuna nuova scusa. Lui, che sarebbe potuto trovarsi legittimamente ancora al settimo.
"Al settimo, al settimo!." esclamò sorridendo il medico, che finiva proprio allora di visitarlo. Sempre esagerati voi ammalati. Sono il primo io a dire che lei può essere contento del suo stato; a quanto vede, dalla tabella clinica, grandi peggioramenti non ci sono stati. Ma da questo a parlare di settime, piano - mi scusi la brutale sincerità - c'è una certa differenza! Lei è uno dei casi meno preoccupanti, ne convengo io, ma è pur sempre un ammalato!"
"E allora, allora" fece Giuseppe Corte accendendosi tutto nel volto, "lei a che piano mi metterebbe?"
"Oh, Dio, non è facile dire, non le ho fatto che una breve visita, per poter pronunciarmi dovrei seguirla per almeno una settimana."
"Va bene" insistette Corte "ma pressapoco lei saprà."
Il medico per tranquillizzarlo, fece finta di concentrarsi un momento in meditazione e poi, annuendo con il capo a se stesso, disse lentamente: 

"Oh Dio, proprio per accontentarla, ecco, ma potremo in fondo metterla al sesto!"
"Sì sì" aggiunse come per persuadere se stesso. "Il sesto potrebbe andar bene."
II dottore credeva così di far lieto il malato. Invece sul volto di Giuseppe Corte si diffuse un'espressione di sgomento: si accorgeva, il malato, che i medici degli ultimi piani l'avevano ingannato; ecco, qui questo nuovo dottore, evidentemente più abile e più onesto, che in cuor suo - era evidente - lo assegnava, non al settimo, ma al quinto piano, e forse al quinto inferiore! La delusione inaspettata prostrò il Corte. Quella sera la febbre salì sensibilmente. La permanenza al quarto piano segnò il periodo più tranquillo passato da Giuseppe Corte dopo l'entrata all'ospedale.
Il medico era persona simpaticissima, premurosa e cordiale; si tratteneva spesso anche per delle ore intere a chiacchierare degli argomenti più svariati. Giuseppe Corte discorreva pure molto volentieri, cercando argomenti che riguardassero la sua solita vita d'avvocato e d'uomo di mondo. 

Egli cercava di persuadersi di appartenere ancora al consorzio degli uomini sani, di essere ancora legato al mondo degli affari, di interessarsi veramente dei fatti pubblici. Cercava, senza riuscirvi. Invariabilmente il discorso finiva sempre per cadere sulla malattia.
Il desiderio di un miglioramento qualsiasi era divenuto in Giuseppe Corte un'ossessione. Purtroppo i raggi digamma, se erano riusciti ad arrestare il diffondersi dell'espulsione cutanea, non erano bastati ad eliminarla. Ogni giorno Giuseppe Corte ne parlava lungamente col medico e si sforzava in questi colloqui di mostrarsi forte, anzi ironico, senza mai riuscirvi.
"Mi dica, dottore. disse un giorno, come va il processo distruttivo delle mie cellule?"
"Oh, ma che brutte parole!" lo rimproverò scherzosamente il dottore. "Dove mai le ha imparate? Non sta bene, non sta bene, soprattutto per un malato! Mai più voglio sentire da lei discorsi simili"
"Va bene" obiettò il Corte "ma così lei non mi ha risposto"
"Oh, le rispondo subito" fece il dottore cortese. "Il processo distruttivo delle cellule, per ripetere la sua orribile espressione, è, nel suo caso minimo, assolutamente minimo. Ma sarei tentato di definirlo ostinato"
"Ostinato, cronico vuol dire?"
"Non mi faccia dire quello che non ho detto. lo voglio dire soltanto ostinato. Del resto sono così la maggioranza dei casi. Affezioni anche lievissime spesso hanno bisogno di cure energiche e lunghe"
"Ma mi dica, dottore, quando potrò sperare in un miglioramento?"
"Quando? Le predizioni in questi casi sono piuttosto difficili... Ma senta" aggiunse dopo una pausa meditativa "vedo che lei ha una vera e propria smania di guarire... se non temessi di farla arrabbiare, sa che cosa le consiglierei?"
"Ma dica, dica pure, dottore...."
"Ebbene, le pongo la questione in termini molto chiari. Se io, colpito da questo male in forma anche tenuissima, capitassi in questo sanatorio, che è forse il migliore che esista, mi farei assegnare spontaneamente, e fin dal primo giorno, fin dal prima giorno, capisce? A uno dei piani più bassi. Mi farei mettere addirittura al...."
"Al primo?" suggerì con uno sforzato sorriso il Corte.
"Oh no! al primo no!" rispose ironico il medico, "questo poi no! Ma al terzo o anche al secondo di certo. Nei piani inferiori la cura è fatta molto meglio, le garantisco, gli impianti sono più completi e potenti, il personale è più abile. Lei sa poi chi è l'anima di questo ospedale?"
"Non è il professor Dati?"
"Già il professor Dati. E' lui I'inventore della cura che qui si pratica, lui il progettista dell'intero impianto. Ebbene, lui, il maestro, sta, per così dire, fra il primo e il secondo piano. Di là irraggia la sua forza direttiva. Ma, glielo garantisco io, il suo influsso non arriva oltre al terzo piano; più in là si direbbe che gli stessi suoi ordini si sminuzzino, perdano di consistenza, deviino; il cuore dell'ospedale è in basso e in basso bisogna stare per avere le cure migliori"
"Ma insomma" fece Giuseppe Corte con voce tremante, "allora lei mi consiglia ..." "Aggiunga una cosa" continuò imperterrito il dottore "aggiunga che nel suo caso particolare ci sarebbe da badare anche all'espulsione. Una cosa di nessuna importanza ne convengo, ma piuttosto noiosa, che a lungo andare potrebbe deprimere il suo "morale"; e lei sa quanto è importante per la guarigione la serenità di spirito. 
Le applicazioni di raggi che io le ho fatte sono riuscite solo a metà fruttuose. Il perché può darsi che sia un puro caso, ma può darsi anche che i raggi non siano abbastanza intensi. Ebbene, al terzo piano le macchine dei raggi sono molto più potenti. Le probabilità di guarire il suo eczema sarebbero molto maggiori. Poi vede? una volta avviata la guarigione, il passo più difficile è fatto. Quando si comincia a risalire, è poi difficile tornare ancora indietro. Quando lei si sentirà davvero meglio, allora nulla impedirà che lei risalga qui da noi o anche più in su, secondo i suoi "meriti" anche al quinto, al sesto, persino al settimo oso dire"
"Ma lei crede che questo potrà accelerare la cura?"
"Ma non ci può essere dubbio. Le ho già detto che cosa farei io nei suoi panni"
Discorsi di questo genere il dottore ne faceva ogni giorno a Giuseppe Corte. Venne infine il momento in cui il malato, stanco di patire per l'eczema, nonostante l'istintiva riluttanza a scendere, decise di seguire il consiglio del medico e si trasferì al piano di sotto.
Notò subito al terzo piano che nel reparto 'regnava una speciale gaiezza', sia nel medico, sia nelle infermiere, sebbene laggiù fossero in cura ammalati molto preoccupanti. Si accorse anzi che di giorno in giorno questa gaiezza andava aumentando: incuriosito, dopo che ebbe preso un po' di confidenza con l'infermiera, domandò come mai fossero tutti così allegri.
"Ah, non lo sa?" rispose l'infermiera "fra tre giorni andiamo in vacanza"
"Come andiamo in vacanza?"
"Ma sì. Per quindici giorni, il terzo piano si chiude e il personale se ne va a spasso. Il riposo tocca a turno ai vari piani"
"E i malati? come fate?"
"Siccome ce n'è relativamente pochi, di due piani se ne fa uno solo.."
"Come? riunite gli ammalati del terzo e del quarto?"
"No, no" corresse l'infermiera "del terzo e del secondo. Quelli che sono qui dovranno discendere da basso"
"Discendere al secondo?" fece Giuseppe Corte, pallido come un morto. "lo dovrei cosi scendere al secondo?"
"Ma certo. E che cosa c'è di strano? Quando torniamo, fra quindici giorni, lei ritornerà in questa stanza. Non mi pare che ci sia da spaventarsi"
Invece Giuseppe Corte - un misterioso istinto lo avvertiva - fu invaso da una crudele paura. Ma, visto che non poteva trattenere il personale dall'andare in vacanza, convinto che la nuova cura coi raggi più intensi gli facesse bene - l'eczema si era quasi completamente riassorbita - egli non osò muovere formale opposizione al nuovo trasferimento. Pretese però, incurante dei motteggi delle infermiere, che sulla porta della sua nuova stanza fosse attaccato un cartello con su scritto "Giuseppe Corte, del terzo piano, di passaggio". Una cosa simile non trovava precedenti nella storia del sanatorio, ma i medici non si opposero, pensando che in un temperamento nervoso quale il Corte anche una piccola contrarietà potesse provocare una grave scossa. 
Si trattava in fondo di aspettare quindici giorni non uno di più, non uno di meno. 
Giuseppe Corte si mise a contarli con avidità ostinata, restando per delle ore intere immobile sul letto, con gli occhi fissi sui mobili, che al secondo piano non erano più così moderni e gai come nei reparti superiori, ma assumevano dimensioni più grandi e linee più solenni e severe. E di tanto in tanto aguzzava le orecchie poiché gli pareva di udire dal piano di sotto, il piano dei moribondi, il reparto dei "condannati", vaghi rantoli di agonie.
Tutto questo naturalmente contribuiva a scoraggiarlo. E la minore serenità sembrava aiutare la malattia, la febbre tendeva a salire, la debolezza generale si faceva più fonda. 
Dalla finestra - si era oramai in piena estate e i vetri si tenevano quasi sempre aperti - non si scorgevano più i tetti e neppure le case della città, ma soltanto la muraglia verde degli alberi che circondavano l'ospedale.
Dopo sette giorni, un pomeriggio verso le due, entrarono improvvisamente il capo-infermiere e tre infermieri, che spingevano un lettuccio a rotelle. 
"Siamo pronti per il trasloco?" domandò in tono di bonaria celia il capo-infermiere.
"Che trasloco?" domandò con voce stentata Giuseppe Corte "che altri scherzi sono questi? Non tornano fra sette giorni quelli del terzo piano?"
"Che terzo piano?" disse il capo-infermiere come se non capisse "io ho avuto l'ordine di condurla al primo, guardi qua." e fece vedere un modulo stampato per il passaggio al piano inferiore firmato nientemeno che dallo stesso professore Dati.
Il terrore, la rabbia infernale di Giuseppe Corte esplosero allora in lunghe irose grida che si ripercossero per tutto il reparto. "Adagio, adagio per carità", supplicarono gli infermieri "ci sono dei malati che non stanno bene". 
Ma ci voleva altro per calmarlo. Finalmente accorse il medico che dirigeva il reparto, una persona gentilissima e molto educata. Si informò, guardò il modulo, si fece spiegare dal Corte. Poi si rivolse incollerito al capo-infermiere, dichiarando che c'era stato uno sbaglio, lui non aveva dato alcuna disposizione del genere, da qualche tempo c'era un'insopportabile confusione, lui veniva tenuto all'oscuro d tutto... 

Infine, detto il fatto suo al dipendente, si rivolse, in tono cortese, al malato, scusandosi profondamente. "Purtroppo però" aggiunse il medico "purtroppo il professor Dati proprio un'ora fa è partito, per una breve licenza, non tornerà che fra due giorni. Sono assolutamente desolato, ma i suoi ordini non possono essere trasgrediti. Sarà lui il primo a rammaricarsene, glielo garantisco... un errore simile! Non capisco come possa essere accaduto!"
Ormai un pietoso tremito aveva preso a scuotere Giuseppe Corte. 

La capacità di dominarsi gli era completamente sfuggita. 
Il terrore l'aveva sopraffatto come un bambino. I suoi singhiozzi risuonavano lenti e disperati per la stanza.
Giunse così, per quell'esecrabile errore, all'ultima stazione. Nel reparto dei moribondi lui, che in fondo, per la gravità del male, a giudizio anche dei medici più severi, aveva il diritto di essere assegnato al sesto, se non al settimo piano! La situazione era talmente grottesca che in certi istanti Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia di sghignazzare senza ritegno.
Disteso nel letto, mentre il caldo pomeriggio dell'estate passava lentamente sulla grande città, egli guardava il verde degli alberi attraverso la finestra con l'impressione di esser giunto in un mondo irreale, fatto di assurde pareti a piastrelle sterilizzate, di gelidi androni mortuari, di bianche figure umane vuote di anima. Gli venne persino in mente che anche gli alberi che gli sembrava di scorgere attraverso la finestra non fossero veri; finì anzi per convincersene, notando che le foglie non si muovevano affatto. 
Questa idea lo agitò talmente, che il Corte chiamò col campanello l'infermiera e si fece porgere gli occhiali da miope, che in letto non adoperava; solo allora riuscì a tranquillizzarsi un poco: con l'aiuto delle lenti poté assicurarsi che erano proprio alberi veri e che le foglie, sia pur leggermente, ogni tanto erano mosse dal vento. 
Uscita che fu l'infermiera, passò un quarto d'ora di completo silenzio. 

Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all'orlo di quel precipizio? 
Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? 
Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l'orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall'altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.

- Dino Buzzati -
da: "Dino Buzzati, La boutique del mistero, Oscar Mondadori 2006



Buona giornata a tutti. :-)